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Privatizzazioni, nuovo fronte nel governo

Da una parte il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan con il ministro per lo Sviluppo economico Carlo Calenda, dall’altra due membri del governo molto vicini a Matteo Renzi come il ministro per le Infrastrutture Graziano Delrio e il sottosegretario alla Comunicazioni Antonello Giacomelli. Sulle privatizzazioni di Poste e Ferrovie il governo appare spaccato, con il segretario del Pd Matteo Renzi ufficialmente silente sulla questione (nella direzione del partito di lunedì si è limitato a criticare le privatizzazioni del passato, a cominciare da quelle di Telecom, ma soprattutto in funzione anti-D’Alema) ma ufficiosamente dietro le quinte della svolta del Pd renziano sul tema. E dopo le firme raccolte dai renziani alla Camera contro l’aumento delle accise su sigarette e benzina, ieri è stata la volta di 26 senatori, questa volta qualche renziano e molti franceschiniani, che in una lettera al capogruppo del Pd Luigi Zanda hanno chiesto una riflessione sulle privatizzazioni, in particolare per Poste.

I profili della questione
Un nuovo corso della Renzinomics in favore di un maggiore intervento pubblico? La questione divide lo stesso mondo renziano. Una personalità come il viceministro all’Economia Enrico Morando, già “liberal” e poi sostenitore di Renzi dalle prime primarie del 2012, dice che «senza polemica nei confronti di nessuno, come ha detto lo stesso Padoan, le privatizzazioni le faremo». Non è solo una questione di cassa, ci tiene a sottolineare lo stesso ministro dell’Economia richiamando il programma da mezzo punto di Pil indicato nel progetto di bilancio mandato a Bruxelles e importante in funzione taglia-debito: l’obiettivo è quello di rafforzare l’«efficienza manageriale» di aziende più aperte al mercato, in cui lo Stato rimane però saldo «al posto di guida». Senza contare, sottolinea Morando, che «si rafforza il capitale delle società aumentandone la capacità di investimenti». Più o meno gli stessi argomenti usati ieri da Calenda: «Sono assolutamente favorevole alla privatizzazione di Poste; naturalmente non si parla di tutta, il controllo rimane nelle mani del governo. Credo che fare le privatizzazioni in un Paese ad alto debito sia importante, altrimenti non si capisce come riduciamo il debito e facciamo investimenti».

Le conseguenze del voto referendario
Il punto è che, come spiega un altro ex “liberal” e poi renziano delle prima ora come il presidente della commissione Bilancio della Camera Giorgio Tonini – come d’altra parte è un ex “liberal” lo stesso premier Paolo Gentiloni – che la sconfitta referendaria del 4 dicembre ha mostrato un’incapacità del governo di spiegare le riforme tra i ceti più deboli e tra i giovani. Ceti che ora qualcuno nel Pd pensa di tutelare meglio con un maggiore intervento pubblico. «Ho dei problemi, Matteo, a privatizzare le Frecce con dentro il trasporto regionale usato dai pendolari», sono state non a caso le parole usate nella direzione del Pd di lunedì da Delrio. «Ma la tutela dei ceti più deboli – argomenta Tonini – non può significare il ritorno allo “statalismo” anni 50. Bisogna stare attenti a non confondere i fini con i mezzi. È chiaro che una forza politica della sinistra riformista deve porsi come obiettivo quello garantire i bisogni dei cittadini più deboli ma questo può avvenire anche con strumenti privati, ad esempio prevedendo l’intervento pubblico laddove per il privato non è remunerativo». Le privatizzazioni in programma, del resto, non mettono a rischio il servizio universale, né su Poste né su Ferrovie, e d’altra parte, ricorda ancora Tonini, già nelle tesi dell’Ulivo del ’95 era stabilito che utilità sociale non significa per forza proprietà pubblica. Una divisione, questa, destinata ad emergere con forza con la campagna congressuale e il Def da scrivere.

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