Amministratori

L’amministratore monocratico non sfugge ai controlli

Fra ridurre le società partecipate, eliminando quelle che non servono o che servono a troppo poco, e ridurre il loro assetto interno, sarebbe il caso di evitare soluzioni frettolose, che rifuggano cioè distinzioni invece necessarie.
Non è a ben vedere faccenda liquidabile nei termini semplicistici della difesa o della guerra a “poltronifici” o a collaudati meccanismi di lottizzazione. Il tema è un altro: se vi sono partecipate che servono realmente, si tratta di farle funzionare bene, in una cornice di buona gestione e, insieme, di legalità.

I poteri dell’amministratore unico
Di qui la domanda: con quali modalità all’amministratore unico è dato di esercitare i poteri riassunti nella sua figura senza alterare il modello naturale di funzionamento dell’ente nel suo complesso?
È infatti evidente che se l’esercizio in forma monocratica dei poteri riassunti nella figura dell’amministratore unico si estrinsecasse al di fuori della sede propria rappresentata da una seduta formale (previamente convocata, con ordine del giorno e, naturalmente, verbalizzazione), ciò impedirebbe agli organi interni di revisione e, ove in concreto previsto (per le sole società statali), al magistrato della Corte dei conti indicato dalla legge 259/1958, di svolgere la propria essenziale funzione di vigilanza e controllo.
Senza semplificare troppo, un certo modo di intendere l’operatività dell’amministratore unico nelle partecipate finisce, all’evidenza, con l’espropriare la funzione di controllo prevista dalla legge (nelle sue diverse e indicate possibili declinazioni) di una delle principali (e sicuramente della più tempestiva delle) occasioni di naturale esplicazione. In sintesi, il rischio è: meno amministratori, meno controllo.

Scelte gestionali e di spending review
È davvero il caso, nel nostro difficile presente?
La scelta legislativa di passare da consigli di amministrazione pletorici e sovraremunerati a organi di amministrazione a tre o (massimo) cinque componenti, remunerati il giusto, non offre forse il pregio di garantire, in astratto (e salve le sanzioni di legge nei casi concreti di devianza), una sana dialettica interna (all’interno del consiglio di amministrazione, e fra quest’ultimo, nella somma dei suoi componenti, e gli organi di controllo)?
Una dialettica interna, questa, il cui sacrificio - in nome di una malintesa idea di spending review, se questa è la logica - potrebbe rivelarsi un prezzo, a livello sistemico, troppo alto da pagare?
Da questo punto di vista, appare perciò ragionevole la scelta di ripensare - operata nel decreto correttivo al Testo unico in materia di partecipate approvato nel consiglio dei ministri del 17 febbraio - di non fare dell’amministratore unico la regola generale, e del consiglio di amministrazione a tre o cinque componenti, invece, l’eccezione. È certamente un atto di fiducia verso l’autonomia decisionale dei soci pubblici, che andrà ripagata nei fatti, con scelte appropriate. In ogni caso, appare necessario un chiarimento sull’esercizio in forma monocratica dei poteri dell’amministratore unico (quando proprio questa dovesse essere la forma in concreto preferita, in questo o quel caso concreto): esso deve esplicarsi nella sede in cui quei poteri si esprimono ordinariamente in forma collegiale, ovvero la seduta cui partecipino anche gli organi interni di revisione e, ove in concreto previsto, il magistrato della Corte dei conti.

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