Amministratori

Le Province restano in stallo

di Antonello Cherchi

Sono ormai più di tre anni che le Province vivono in una situazione transitoria di cui non si intravede, per il momento, la fine. Riformate dalla legge 56 del 2014 (entrata in vigore ad aprile di quell'anno) con la prospettiva di vederle cancellate dalla riforma costituzionale che segnava anche la fine del bicameralismo perfetto - progetto che si è, invece, infranto contro il referendum dello scorso 4 dicembre - le Province sono in mezzo al guado e a corto di soldi.
La legge 54 - di cui l'attuale ministro delle Infrastrutture, Graziano Delrio, reca la paternità quando era sottosegretario a Palazzo Chigi - ha messo, infatti, in moto un processo sfuggito di mano al Governo. La riforma del 2014 ha ridisegnato l'assetto delle Province, eliminando le giunte e le altre cariche politiche, da quella di presidente ai consiglieri. Al loro posto scranni non più onerosi per le pubbliche finanze, ricoperti da politici eletti con votazioni di secondo livello direttamente dai sindaci e dai consiglieri comunali dei municipi appartenenti all'ex provincia. Il fatto di aver messo alla porta oltre 3mila assessori e consiglieri provinciali ha consentito un cospicuo taglio ai costi della politica, stimato in circa 70 milioni l'anno. Ed è l'unico risultato positivo e tangibile in un meccanismo che, per altri versi, si è invece inceppato.

Competenze e pianta organica
A cominciare dalle competenze. La legge Delrio ha rivisto il quadro delle funzioni delle Province, le quali hanno assunto la fisionomia delle associazioni di comuni in modo da far fronte alle esigenze tipiche degli enti di area vasta che una singola amministrazione comunale, per quanto grande, non riesce a soddisfare. Per esempio, la rete stradale o la manutenzione delle scuole, settori che la legge 54 ha, insieme all'ambiente, conservato in capo alle ex Province.
Il ridimensionamento delle competenze ha imposto una forte riorganizzazione degli organici, con un significativo trasferimento del personale verso altre amministrazioni. Nel giro di due anni 16mila dipendenti delle Province sono stati ricollocati (7mila nelle Regioni) o sono andati in pensione (più di 2mila), così che gli organici sono scesi dai 42mila precedenti alla riforma ai 26mila attuali.
Il fatto è che ora ci si ritrova con le ex Province che hanno piante organiche ridotte, mentre il loro status, venuto meno il disegno di abolirle, ha conservato le prerogative costituzionali. E ciò imporrebbe, secondo l'Upi (Unione delle province italiane), un ripensamento del numero dei dipendenti. Passaggio che si potrebbe, sempre secondo l'Upi, attuare con un decreto legge, che dovrebbe anche mettere fine al periodo di transizione, adeguando non solo il personale alla nuova situazione, ma anche le dotazioni finanziarie.

Le risorse
Perché pure sul versante dei soldi, la mancata cancellazione dei vecchi enti ha prodotto una situazione ingarbugliata. Confidando nel successo della riforma costituzionale, infatti, già con la legge di Stabilità per il 2015 era stato previsto un taglio, all'insegna dei minori costi degli enti riformati, di un miliardo di euro ai bilanci di Province e Città metropolitane. Sforbiciata che, però, si è dimostrata non tollerabile una volta che l'assetto costituzionale è rimasto invariato e alla quale il legislatore ha cercato di porre rimedio con più interventi. L'ultimo, quello previsto nella manovrina, che per le Province delle Regioni a statuto ordinario ha stanziato 180 milioni di euro per il 2017, altrettanti per il 2018 e 80 a partire dal 2019, ai quali si aggiungono 170 milioni da destinare, nel 2017, alla manutenzione straordinaria delle strade.La manovrina ha, inoltre, messo a disposizione 79 milioni nel 2017, 118 nel 2018, 80 nel 2019 e 44,1 nel 202o per l'edilizia scolastica.

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