Amministratori

Peculato per il consigliere regionale che finanzia il partito con i soldi pubblici

di Andrea Alberto Moramarco

Commette il reato di peculato il consigliere regionale che utilizza i contributi pubblici erogati dal consiglio regionale al suo gruppo consiliare per spese non giustificate o per finanziare indebitamente partiti politici. Difatti, il reato di cui all'articolo 314 del codice penale si configura quando vi sia una utilizzazione di denaro pubblico, da parte del pubblico ufficiale, e non si dia giustificazione certa, secondo le norme della contabilità pubblica o quelle derogative previste dalla legge, del loro impiego per finalità corrispondenti alle attribuzioni e competenze istituzionali specifiche. Lo si desume dalla sentenza n. 51286 della Cassazione, depositata ieri.

Il caso
La vicenda riguarda un ex consigliere regionale della Sardegna accusato di peculato per aver utilizzato indebitamente, nella sua qualità di pubblico ufficiale, delle somme di denaro erogate dal consiglio regionale in favore del suo gruppo consiliare di appartenenza. Nello specifico, l'ex consigliere aveva sostenuto spese per materiale propagandistico, pranzi e rinfreschi in occasione di incontri di lavoro e, soprattutto, per finanziare in maniera indiretta l'attività di partiti politici, per una somma complessiva di circa 50mila euro. Si trattava, cioè, di spese in parte non documentate e in parte non aderenti alle finalità istituzionali per le quali erano erogate.
Dopo la condanna in primo grado e la riduzione della pena in appello, l'ex consigliere si rivolgeva in Cassazione dove lamentava l'errata interpretazione come “pubbliche”, da parte dei giudici di merito, delle spese incriminate, che in realtà dovevano considerarsi “legittime” in quanto riconducibili all'autonomia del gruppo consiliare e riferibili allo stesso consigliere quale quota individuale; nonché la non corretta applicazione della normativa regionale sulla rendicontazione dei contributi ai gruppi politici.

Le spese sostenute dai consiglieri
La Suprema corte ritiene, però, inammissibile il ricorso e, attraverso l'analisi delle più importanti sentenze di legittimità in materia di peculato e contributi pubblici indebitamente utilizzati da consiglieri regionali, ribadisce alcuni principi cardine sulla materia. In primo luogo, il collegio sottolinea come l'oggetto del reato di peculato è «l'appropriazione di denaro o altra cosa mobile altrui delle quali l'agente abbia comunque la disponibilità, così che la natura “pubblica” o meno delle somme ricevute dal consigliere a titolo di quota individuale è elemento del tutto non pertinente». D'altra parte, sostiene la Corte, si tratta di spese che già i giudici d'appello hanno considerato come non giustificate o non legittime distinguendo «tra spese di carattere istituzionale, effettuate dai consiglieri regionali perché strumentali al funzionamento dei gruppi e corrispondenti alla loro natura pubblicistica quali necessarie articolazioni interne del consiglio regionale, e le spese sostenute dal singolo consigliere per la sua attività politica sul territorio senza alcun collegamento con le citate funzioni rappresentative e con il funzionamento del gruppo consiliare regionale di appartenenza». E tale valutazione di merito non può essere sindacata in sede di legittimità.

L'obbligo di rendicontazione
Quanto alla questione della conservazione della documentazione delle spese, la Corte ricorda come tutti coloro che investono una funzione pubblica sono tenuti al rispetto di un generale obbligo di rendicontazione integrando il delitto di peculato «l'utilizzazione di denaro pubblico, quando non si dia una giustificazione certa e puntuale del suo impiego per finalità strettamente corrispondenti alle specifiche attribuzioni e competenze istituzionali del soggetto che ne dispone, tenuto conto delle norme generali della contabilità pubblica». Si tratta, cioè, spiegano i giudici, di regole discendenti direttamente dalle norme costituzionali che riguardano l'intero settore pubblico alle quali, quindi, devono ritenersi assoggettati anche i consiglieri regionali.

La sentenza della Corte di cassazione n. 51286/2017

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