Amministratori

L'affidamento in house illegittimo non evita alla partecipata di realizzare i lavori con gara

di Michele Nico

Può costare cara agli amministratori e al direttore generale di una partecipata la decisione di procedere senza gara all'acquisto di un terreno per la realizzazione di un impianto di raccolta e stoccaggio di rifiuti urbani, tanto più se in presenza di operazioni giuridiche discutibili e fittizie, volte a dilatare il prezzo dell'immobile. Con la sentenza n. 16855/2018 la Corte di cassazione, sezione VI penale, si occupa degli investimenti realizzati da una società pubblica nel segmento della filiera dei rifiuti e ravvisa fondata l'imputazione di abuso d'ufficio a carico dei vertici di una partecipata per l'omessa procedura di evidenza pubblica, censurando l'ordinanza del Tribunale che aveva, invece, escluso prima facie tale ipotesi di reato. Un'esclusione frettolosa e ingiustificata, scrivono i giudici della Suprema Corte, perché una società a partecipazione pubblica che opera nel settore dei rifiuti quale «soggetto monopolista di fatto» deve considerarsi quale impresa con la veste giuridica di organismo di diritto pubblico, e quindi soggetta agli obblighi previsti dalla normativa in tema di appalti pubblici.

I fatti
L'impresa di cui trattasi opera per conto di un consorzio su un ampio bacino che comprende numerosi Comuni, sulla base di un contratto di servizio che viene prorogato da ben 14 anni, in assenza di una qualsiasi procedura di evidenza pubblica. Si tratta di una concessione illegittima, tanto più che il regime delle proroghe è affetto da nullità per contrasto alle norme regionali, che prevedono la soppressione degli enti responsabili di bacino a far data dal 1° gennaio 2013.
Il contesto organizzativo contra legem non impedisce ai giudici della Corte di qualificare il gestore alla stregua di una società in house, tenuta al rispetto della disciplina in tema di appalti pubblici. È proprio questo il nodo della controversia, tant'è che le difese del Cda della partecipata sostengono che le proroghe contrattuali senza gara, per quanto illegittime, non sarebbero idonee a trasformare la gestione considerata in un «affidamento in house di fatto», rendendo la società un organismo di diritto pubblico. Questa tesi è confutata dalla Corte con un'accurata ricostruzione giuridica che costituisce l'aspetto di maggior interesse della sentenza in commento. Innanzitutto, scrivono i giudici, non può ammettersi che l'acquisto di un immobile sia una fattispecie sottratta al Codice dei contratti, perché l'operazione patrimoniale «costituisce attività prodromica e strumentale per l'insediamento, nello stesso sito, del nuovo impianto produttivo» per lo smaltimento dei rifiuti in quella zona del territorio. Ad aggravare la situazione concorre poi il fatto che il prezzo di acquisto del terreno è maggiorato di circa un terzo dell'importo, in ragione di un contratto di leasing connesso al bene immobile acquisito. In questo scenario, il Tribunale esclude un illecito di natura penale a causa del fatto che la società opera con fine di lucro nel settore dell'igiene ambientale e non appare costituita per soddisfare esigenze di interesse generale avente carattere non industriale e commerciale. In effetti, è vero che l'impresa si assume i rischi collegati alle perdite commerciali e gli utili sono distribuiti tra i soci, proprio come accade nel caso delle società private.

Le conclusioni della Suprema Corte
Ciò non basta, tuttavia, per sfuggire alle maglie della Suprema Corte, la quale osserva come già in passato la sezione penale abbia riconosciuto la qualifica di incaricato di pubblico servizio all'amministratore di una società per azioni, operante secondo le regole privatistiche, ma partecipata da un consorzio di enti pubblici e avente a oggetto la gestione di un servizio di pubblico interesse, quale la raccolta o lo smaltimento dei rifiuti solidi urbani (Cassazione penale, sezione VI, sentenza n. 45908/2013). In ragione di ciò, i giudici concludono che gli organi della società in house «assoggettati a vincoli gerarchici facenti capo alla pubblica amministrazione, neppure possono essere considerati, a differenza di quanto accade per gli amministratori delle altre società a partecipazione pubblica, come investiti di un mero munus privato, inerente a un rapporto di natura negoziale instaurato con la medesima società». L'assunto è addotto e ribadito per censurare la decisione impugnata, là dove essa si limita a escludere i connotati di organismo di diritto pubblico in capo a un'impresa pubblica che opera in regime di monopolio per la gestione di un servizio di interesse generale, soltanto per il fatto che il titolo giuridico dell'affidamento diretto non è conforme ai requisiti di legge, ma risale a un contratto di servizio irregolare più volte prorogato.

La sentenza della Corte di cassazione penale n. 16855/2018

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