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Concussione o induzione indebiti, sui casi «ambigui» serve una valutazione caso per caso

di Andrea Alberto Moramarco

Dopo quasi sei anni dall'entrata in vigore della legge anticorruzione (legge 190/2012) «la giurisprudenza della Cassazione continua a elaborare sullo “spacchettamento” legislativo del vecchio articolo 317 del codice penale nelle due fattispecie di concussione (per costrizione) e induzione indebita a dare o promettere utilità, rispettivamente previste ora dagli articoli 317 e 319-quater. Lo dimostra la sentenza della stessa Corte n. 30436, depositata ieri, relativa ad un caso di richiesta di “mazzette” per evitare la sanzione fiscale, con la quale i giudici di legittimità cercano di fornire all'interprete gli strumenti per capire quando si configura l'una o l'altra fattispecie nei casi in cui il criterio del danno ingiusto per la concussione e indebito vantaggio per l' induzione indebita non sia dirimente.

La vicenda
Il caso ha coinvolto un funzionario dell'Agenzia delle Entrate, accusato, assieme ad un collega giudicato separatamente, di quattro distinti fatti di presunta concussione. In particolare, dalle denuncie che hanno dato il via alle indagini penali emergeva che agli esercenti venivano chieste “mazzette” per evitare sanzioni all'esito dei controlli fiscali . In seguito, nel processo si accertava che gli agenti del Fisco prospettavano conseguenze economiche negative per i contribuenti sia in caso di irregolarità effettivamente riscontrate, sia in caso di presunte ma non sussistenti irregolarità contabili, ottenendo in tutti i casi delle somme di denaro.
Sia il Tribunale che la Corte d'appello hanno condannato il funzionario per concussione.

La decisione
In Cassazione, il funzionario ha cercato di far cambiare il verdetto puntando sulla distinzione tra il reato di concussione e il nuovo reato di induzione indebita a dare e promettere utilità, fondata sostanzialmente sul concetto di danno ingiusto da evitare o indebito vantaggio da ottenere; distinzione che non era stata presa adeguatamente in considerazione dai giudici di merito.
La Corte è partita dalla sentenza a Sezioni unite “Maldera” che ha sostanzialmente ritenuto che la concussione scatta in caso di condotta di violenza o minaccia, con l'intervento della persona offesa diretto a scongiurare un danno ingiusto; mentre l'induzione indebita si configura a fronte di una condotta perlopiù di matrice corruttiva, con l'intervento della persona offesa diretto ad ottenere un indebito vantaggio.
Ciò posto, nei casi in cui è difficile trovare un criterio distintivo, ovvero nei casi “misti” di minaccia-offerta o minaccia-promessa, occorre procedere a una gradazione del requisito del danno ingiusto e di quello del vantaggio indebito, oltre che ricorrere ai criteri sussidiari del bilanciamento dei beni giuridici coinvolti nel conflitto decisionale, della presenza dell'uso di un potere discrezionale, o ancora della presenza di un abuso di qualità. Resta, in ogni caso, difficile stabilire quale reato si configuri nell'ipotesi in cui la parte offesa del delitto, pagando, consegua anche un indebito vantaggio, dovendosi qui verificare che il vantaggio non dovuto sia prevalso o meno sull'aspetto intimidatorio.
In queste ipotesi, puntualizza la Corte, ovvero «nei casi c.d. ambigui, quelli cioè che possono collocarsi al confine tra la concussione e l'induzione indebita i criteri di valutazione del danno antigiuridico e del vantaggio indebito, che rispettivamente contraddistinguono i detti illeciti, debbano essere utilizzati nella loro operatività dinamica all'interno della vicenda concreta, individuando, all'esito di una approfondita ed equilibrata valutazione complessiva del fatto, i dati più qualificanti». E nella fattispecie, invece, venendo in rilievo proprio una ipotesi di caso misto o ambiguo, i giudici di merito non hanno verificato in maniera adeguata se vi sia stata una condotta abusiva del pubblico ufficiale, se fosse ravvisabile un indebito vantaggio per la persona offesa o se ancora i fatti contestati fossero riconducibili in fattispecie corruttive.

La sentenza della Corte di cassazione n. 30436/2018

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