Amministratori

Scatta la corruzione anche se il favore chiesto dal funzionario pubblico non è un atto illecito

di Domenico Irollo

Il reato di corruzione “impropria” disciplinato all'articolo 318 del codice penale è configurabile anche nei casi in cui l'esercizio della funzione pubblica oggetto di mercimonio non si concretizzi in un atto illecito, contrario ai doveri d'ufficio.
Il principio è stato ribadito dalla sesta sezione della Cassazione penale con la sentenza n. 40344/2018 per effetto della quale è stata annullata l'assoluzione decretata dai giudici di merito in primo e secondo grado nei confronti di una persona, al tempo noto personaggio politico istituzionale, accusata di corruzione per aver promosso, nella veste di membro del Consiglio dell'Autorità di vigilanza sui contratti pubblici (Avcp, ora Anac) e di consigliere relatore, l'adozione da parte di quell’organo di una delibera favorevole a una società privata che aveva richiesto un parere all'Authority: in concomitanza con l'adozione della delibera l'uomo aveva difatti sollecitato la società in questione affinché offrisse un impiego a un suo conoscente che veniva poi da questa effettivamente assunto, salvo essere licenziato dopo solo un mese.

Il caso
Il Tribunale di Roma e la Corte d'appello capitolina avevano “derubricato” il fatto a un mero “favore”, una cortesia usata dalla società privata per ingraziarsi una persona di elevata caratura politico-istituzionale ma svincolata da uno stretto rapporto corrispettivo di “dare-avere” con il parere poco prima deliberato dall'Avcp, peraltro risultato essere assolutamente legittimo.

La sentenza
Gli Ermellini hanno però annullato l'assoluzione e di conseguenza rinviato il giudizio ad altra sezione della Corte territoriale romana, evidenziando l'irrilevanza di entrambe le argomentazioni valorizzate dai giudici di merito per escludere la responsabilità penale dell'imputato. A questo proposito, il collegio ha rimarcato il fatto che a seguito della riforma del 2012 (legge n. 190), nella formulazione vigente dell'articolo 318 del codice penale l'oggetto della “retribuzione” non è più l'atto dell'ufficio ma più genericamente l'esercizio delle funzioni o dei poteri del pubblico agente, così delineando una fattispecie che introduce un generale divieto di “monetizzazione” del munus pubblico, anche quando la “remunerazione” assicurata dal privato sia sganciata da una logica di formale sinallagma tra la dazione indebita e uno specifico atto dell'ufficio, che in tesi potrebbe anche non essere individuato con certezza.
Inoltre, la Suprema corte ha sottolineato che il delitto di corruzione “impropria” ha un perimetro residuale, venendo in rilievo in presenza di un mercimonio riferito appunto a un atto che si assume non solo legittimo, ma anche conforme ai doveri di ufficio del pubblico agente, poiché in caso contrario nella condotta sarebbero ravvisabili gli estremi della fattispecie di corruzione “propria” (articolo 319 del codice penale) che sanziona invece il funzionario prezzolato per un atto contrario ai doveri d'ufficio.
Dunque, solo la figura delittuosa di cui all'articolo 319 richiede un sindacato sul contenuto dell'atto, mentre l'ipotesi prevista dall'articolo 318 attiene a quelle situazioni in cui ci si limiti a contestare il mercimonio della funzione in generale ovvero di un atto dell'ufficio precisamente individuato, non essendo richiesto pure l'accertamento dell'illegittimo esercizio della funzione ovvero dell'illegittimità dell'atto.

La sentenza della Corte di cassazione penale n. 40344/2018

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