Amministratori

Il nuovo regionalismo punta su differenze territoriali e ridefinizione della governance

di Alessandro Vitiello

Qual è il futuro delle Regioni? Il ruolo e le funzioni che i territori avranno in futuro è tornato a essere uno dei temi centrali nel dibattito politico-istituzionale del nostro Paese.
Alla lunga stagione riformista culminata nella modifica del titolo V della Costituzione, solo in parte attuata, erano seguiti infatti gli anni della ri-centralizzazione ormai tramontati con il referendum istituzionale del 4 dicembre 2016. La bocciatura popolare della riforma costituzionale approvata dal Parlamento nella scorsa legislatura ha riportato i territori in superficie, sebbene rimanga sempre sullo sfondo il peccato originale dei padri della patria: aver creato uno Stato centralizzato dove invece sarebbe stato più opportuno costruirne uno federale.
Partendo da un inedito punto di vista, cioè dalla crisi che ha colpito la rappresentanza regionale (i Consigli), il Censis ha realizzato un’indagine partendo dalle opinioni dei protagonisti: i consiglieri.

Regionalismo differenziato
Federalismo, decentramento, devolution, parole e concetti entrati nel lessico comune degli italiani già alla fine degli anni ’80, hanno ceduto il passo a progetti di regionalismo differenziato, cioè di un complesso eterogeneo di norme, regole e prassi amministrative capace di modellarsi in base alle peculiarità delle diverse aree del Paese. Riconoscendo un ruolo non solo negativo a quel «policentrismo territoriale» che è dato di fatto sin dalla nascita dello Stato unitario e che negli ultimi anni si è ancora evidenziato nel peggiore dei suoi aspetti, cioè in quel divario di sviluppo e benessere che caratterizza il nostro Paese.
Ripartire dalle differenze, quindi, per restituire nuova centralità alle Regioni e alle assemblee legislative di queste, negli ultimi anni compresse dalla sottrazione di competenze, dalle limitazioni all’autonomia impositiva e alla capacità di spesa, dalla quasi impossibilità di rinnovarsi nel capitale umano e - non ultima tra le cause della marginalizzazione - dalla gravissima crisi economica.

La crisi della rappresentanza
L’indagine del Censis è focalizzata sul mutamento della governance regionale del 1999 e sulla consequenziale perdita di rappresentatività delle assemblee regionali.
Si pensi che lo «svuotamento delle responsabiltà dei decisori regionali» a favore del Governatore eletto direttamente dal popolo, che da molti era stato salutato come salvifico perché in grado di garantire stabilità agli esecutivi, oggi è valutato dalla maggiornaza dei consiglieri come «non in grado di aumentare la capacità di incidere delle Regioni».
Il 41% degli “anziani” (con più di un mandato alle spalle), addirittura, ritiene che la legittimazione ad personam dei presidenti abbia ridotto la possibilità delle Regioni di migliorare significativamente la vita delle comunità amministrate».
Tutti più o meno daccordo, comunque, sul fatto che il regionalismo non scaldi il cuore degli italiani, in un contesto di generale sfiducia verso le istituzioni e la politica che caratterizza l’Italia in misura maggiore rispetto, per esempio, agli altri Paesi membri dell’Unione europea.
Unione europea che la maggioranza dei consiglieri non crede in grado di poter davvero sottrarre sovranità agli Stati nazionali e che viene snobbata anche sul disegno delle macro-regioni in favore di «policy relazionali di livello inter-regionale».
Infine, la competenza legislativa concorrente tra Stato e Regioni. Il 68% dei consiglieri regionali ritiene «sensato» l’assetto attuale, ma il 90,5% degli stessi vorrebbe che fossero attuate forme di consultazione preventiva e cooperazione sulle materie di competenza esclusiva dello Stato con impatto rilevante sui territori.
Auspicata dalla maggioranza (72,6%) degli intervistati - ça va sans dire - maggiore autonomia su determinate materie.

L’indagine del Censis

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