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Riforma delle Province siciliane all'ultimo atto, come evitare il default?

di Dario Immordino

La riforma delle Province siciliane nel 2014 è stata concepita e pubblicizzata come una avveniristica opera di ingegneria istituzionale, incentrata sul taglio dei costi della politica e sulla sostituzione di enti di governo dell'area vasta obsoleti e inefficienti con altri moderni ed efficienti, destinati a fungere da modello per la riforma delle Province nel resto del territorio nazionale.
Quattro anni dopo liberi consorzi e città metropolitane non esercitano le nuove competenze, sono amministrati da commissari regionali e da vertici provvisori, non hanno fondi sufficienti per pagare le utenze, la manutenzione di scuole e strade, i servizi per gli alunni con handicap, gli stipendi dei dipendenti, le spese per il rimborso di mutui e fitti passivi, la quota di cofinanziamento di importanti progetti per lo sviluppo locale assistiti da contribuzione dell'Ue, alcuni enti non sono stati in grado di predisporre il bilancio previsionale, hanno sospeso l'erogazione di servizi fondamentali e segnalato l'imminente dissesto finanziario, e i cittadini sono spesso “costretti” ad agire in giudizio per ottenere la regolare erogazione di prestazioni e servizi essenziali.

Tra difetti di progettazione e disimpegno finanziario dello Stato
Le responsabilità di questa impasse derivano dai gravi difetti di progettazione della riforma regionale ma anche dal disimpegno finanziario dello Stato.
La riforma regionale ha caricato di nuove e impegnative funzioni gli enti successori delle Province senza attribuire loro le risorse necessarie per finanziarle, e soprattutto senza tener conto del fatto che una consistente mole di risorse di questi enti dipende dal bilancio e dalla legislazione statale. Di conseguenza l'aumento delle competenze e dei relativi costi avrebbe dovuto essere concordato con lo Stato, il quale, posto di fronte a una riforma non condivisa, si è rifiutato di sostenerne gli oneri. In assenza delle risorse necessarie liberi consorzi e città metropolitane non solo non hanno potuto mai esercitare le nuove funzioni, ma si sono trovati a svolgere le competenze delle vecchie Province con meno risorse.
La situazione si è progressivamente aggravata a causa dei consistenti tagli ai trasferimenti statali, che nel triennio 2012/2014, si sono ridotti di quasi il 92 per cento (da 90 a 7 milioni di euro), e al continuo incremento del contributo alla finanza pubblica richiesto agli enti di area vasta siciliani, cioè delle risorse che devono versare allo Stato, passato, tra il 2014 e il 2017, da 22 a 230 milioni.
Per compensare il disimpegno finanziario dello Stato, la Regione ha destinato alle nuove Province trasferimenti a carico del proprio bilancio, ma questi interventi straordinari non sono riusciti ad arginare il disavanzo strutturale di circa 200 milioni, e così ha impugnato le diposizioni del bilancio statale che incrementano il contributo alla finanza pubblica a carico degli enti siciliani, e parallelamente ha avviato una trattativa con lo Stato per individuare le risorse necessarie a garantire il regolare svolgimento delle funzioni.

Ridefinizione delle competenze
Intanto la riforma è stata sottoposta a continue modifiche, la reintroduzione della elezione diretta dei vertici delle nuove province siciliane è stata dichiarata illegittima dalla Corte costituzionale e si preparano altre iniziative legislative per riscrivere la governance dei “nuovi” enti. Ma nella situazione attuale qualsiasi progetto di contro riforma deve necessariamente partire dalla ridefinizione delle competenze, in modo da garantire la reale funzionalità delle amministrazioni e la disponibilità di risorse adeguate alle attività istituzionali di pertinenza. Ciò perché l'eventuale buon esito del contenzioso e della trattativa con lo Stato, per niente scontati, fornirebbe tutt'al più le risorse per esercitare le funzioni attuali, cioè quelle delle vecchie Province, ma non consentirebbe di trasferire a liberi consorzi e città metropolitane le nuove funzioni, di cui peraltro non si conosce ancora precisamente il costo.
Il risultato sarebbe la riproposizione delle Province con nuovo nome, identiche funzioni, risorse incerte e vertici non eletti dai cittadini.
Per questo la soluzione della complessa vicenda potrebbe derivare dall'adozione di un meccanismo flessibile di assegnazione delle competenze, come quello statale, che preveda l'attribuzione in una prima fase di un numero limitato di funzioni fondamentali coincidenti con quelle delle Province del resto del territorio nazionale, l'individuazione di altre funzioni che potrebbero essere svolte efficientemente dagli enti intermedi, la valutazione attenta del fabbisogno di risorse e personale relativo a ciascuna competenza, l'attribuzione di competenze ulteriori e di risorse sufficienti per esercitarle fornendo ai cittadini un livello adeguato di servizi e prestazioni. Ciò consentirebbe di garantire l'effettiva corrispondenza tra costi delle funzioni e risorse, di salvaguardare l'autonomia siciliana scegliendo le competenze da assegnare alle nuove province e differenziandole dal resto del territorio nazionale, ed al contempo, attraverso il recepimento formale del modello statale, metterebbe al riparo la riforma da possibili impugnazioni e probabilmente faciliterebbe la trattativa con lo Stato per l'assegnazione di ulteriori risorse agli enti siciliani.

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