Amministratori

Danno erariale, patteggiamento equiparato a sentenza di condanna

di Carmelo Battaglia e Domenico D'Agostino

Con la sentenza n. 181/2018, la Corte dei conti sezione giurisdizionale regionale per il Veneto ha messo, o meglio “rimesso”, alcuni punti fermi in materia di danno all’immagine.
In primo luogo, la Corte ha chiarito come, nel caso delle società, sussista la giurisdizione esclusiva della Corte dei Conti se la gestione del servizio si configuri nell’ambito di un rapporto “in house”, in tal caso ponendosi la società come una articolazione dell’Ente e venendo in rilievo il danno, da quest’ultima subito, come danno patrimoniale dell’Ente pubblico, seppure formalmente separato dallo schermo societario.
Altresì, ha chiarito che non è sufficiente l’esistenza di un contratto di servizio a comprovare l’esistenza di un rapporto di delegazione interorganica: perché la società possa rivestire la qualifica di “in house”, dallo Statuto – e in particolare dalla rispettiva ripartizione delle competenze tra assemblea dei soci e organo di amministrazione – deve emergere la presenza del “controllo analogo”, da valutarsi secondo i criteri del diritto eurounitario.
Passando dall’aspetto processuale al merito della configurazione del danno erariale la Corte ha, anzitutto, ritenuto che la sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti, di cui all’articolo 444 Cpp, possa essere equiparata, ai fini dell’accertamento della responsabilità erariale, ad una sentenza di condanna.
In particolare, nel procedimento di applicazione della pena su richiesta delle parti, rispetto agli accordi sulla pena, il giudice non funge da notaio né tali accordi configurano negozi da omologare: siamo davanti a dei petita, accoglibili o no.
Il giudice esercita, quindi, un’autentica funzione giurisdizionale, determinante, dato che senza di essa le parti non avrebbero alcuna possibilità di definire il giudizio, mentre è proprio questo il momento qualificante della funzione giurisdizionale: il giudice, acquisita la richiesta ed il consenso, deve esercitare un vaglio critico sulla qualificazione giuridica del fatto, sull’applicazione e la comparazione delle circostanze prospettate, sulla congruità della pena e, primariamente, sull’eventuale sussistenza di cause di non punibilità di cui all’articolo 129 Cpp.
Ciò non esclude, peraltro, che in tale rito vi sia spazio per il potere dispositivo delle parti, ma non possono certo essere travalicati i limiti derivanti dal principio di legalità, non disponibile: il procedimento speciale comporta un patteggiamento sulla pena e non sul fatto-reato, rispetto al quale la verifica giuridica non deve essere apparente e formale, ma specifica e sostanziale, estesa alla fattispecie concreta, controllata ed individuata attraverso gli atti. Le pronunce di applicazione della pena concordata, inoltre, non differiscono dalle sentenze di condanna neppure sotto il profilo della regola di giudizio da applicare: ciò che cambia rispetto al rito ordinario, infatti, è la qualità dell’accertamento condotto dal giudice e dalle parti sulle questioni di fatto, non la regola di giudizio (art. 533 Cpp).
Per tali motivi, in conformità ad un consolidato orientamento, il Collegio ha ritenuto che la sentenza di “patteggiamento”, divenuta irrevocabile, essendo equiparata ad una sentenza di condanna, possa costituire valido presupposto per l’esercizio dell’azione per il risarcimento del danno erariale. In proposito, viene in rilievo l’orientamento della giurisprudenza di questa Corte, secondo cui pur non essendo precluso al Giudice contabile l’accertamento e la valutazione dei fatti in modo difforme da quello contenuto nella sentenza pronunciata ai sensi dell’articolo 444 Cpp, tuttavia questa assume un valore probatorio qualificato, superabile solo attraverso specifiche prove contrarie.
Il danno all’immagine della Pa sussiste ogni qualvolta il fatto di reato sia stato oggetto di ampio risalto mediatico, sia nella fase preprocessuale che in quella processuale penale, di modo da essere percepito quale scadimento della funzione pubblica. La quantificazione del danno all’immagine deriva da una valutazione sintetica di vari elementi: la consistenza delle somme illecitamente sottratte, il ruolo rivestito dagli autori del reato, il disvalore etico e sociale dei comportamenti emersi, la natura, la gravità, la durata e la finalizzazione dei fatti di reato commessi e, infine, la ricaduta negativa sulla collettività delle condotte dedotte in giudizio. In particolare, va provato il clamor fori interno ed esterno derivante dalla condotta delittuosa che infanga il buon nome della Pa, costituzionalmente improntata ai principi di buon andamento ed imparzialità.
Da ultimo, la Corte prende posizione sulla domanda di rateizzazione formulata dai convenuti. Tale domanda è giurisdizionalmente inammissibile, essendo precluso alla magistratura contabile di pronunciarsi su una questione che attiene, in via esclusiva, alla fase esecutiva del titolo giudiziale, peraltro oggetto di specifica disciplina codicistica all’articolo 215, comma 5, del codice di giustizia contabile, che attribuisce la competenza alla determinazione del piano di rateizzazione, su richiesta del debitore, all’Amministrazione lesa.

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