Amministratori

Le eterne riforme della Pa e il fallimento della politica

La legge delega di riforma della Pubblica amministrazione esaminata venerdì scorso dal consiglio dei ministri torna ancora una volta sui temi della valutazione e della “meritocrazia” dei dipendenti pubblici. Tra le ricette individuate per superare lo stallo in cui si sono arenati i precedenti tentativi di intervento c'è l'idea di affidare a organismi estranei alla Pubblica amministrazione funzioni crescenti anche nella definizione degli obiettivi da valutare. Ma programmare, fissare gli obiettivi e valutare sono azioni che non appartengono al comportamento naturale dell'organo politico e del datore di lavoro pubblico. L'indebolimento della classe politica e amministrativa, inoltre, grazie a un processo ormai consolidato di selezione avversa, sta portando a far scomparire il ruolo di tali funzioni strategiche. Complice anche una trasformazione genetica della politica e delle modalità di conseguimento del consenso.

La prova arriva dal fatto che mentre il dibattito politico continua ad appassionarsi alla valutazione, le scadenze operative sul tema, che intrecciano l’approvazione dei documenti di bilancio, sono rilevanti quanto ignorate sia dagli amministratori sia dagli osservatori.

Una di queste riguarda la programmazione, proprio per la definizione degli obiettivi e la valutazione. Con la programmazione si orientano la macchina amministrativa, le risorse finanziarie e umane, e si punta ad attuare le politiche. Mentre ci si appresta ad approvare i bilanci, i vertici delle amministrazioni devono affrettarsi ad adottare i piani della performance e le direttive annuali, e aggiornare i sistemi di valutazione. Un’attività che la politica non può delegare alla dirigenza o a un soggetto esterno, come ricordato da anni dagli articoli 4 e 14 del testo unico. È questo il momento in cui la politica deve fissare gli obiettivi e indirizzare la macchina, altrimenti poi è inutile lamentarsi del fatto che l’amministrazione e la dirigenza non rispondono agli indirizzi dell’organo politico. La norma, raramente rispettata, prevede che tutto questo debba essere fatto ogni anno entro 10 giorni dalla pubblicazione della legge di bilancio, mentre il Piano della performance, documento programmatico triennale, va adottato entro il 31 gennaio.

A chi nomina i capi dipartimento o i direttori generali, (ministri, sindaci, presidenti eccetera) spetta l’assegnazione degli obiettivi e la valutazione sul loro raggiungimento. L’assegnazione delle risorse per alcuni obiettivi invece che per altri è una scelta politica, non un esercizio burocratico.

Senza una valutazione seria non è facile motivare la rotazione degli incarichi o la sostituzione dei dirigenti. Tutto diventa aleatorio. Inutile rendere poi trasparenti una serie di moduli astratti.

La deresponsabilizzazione dei protagonisti della governance rischia di essere sostenuta involontariamente da un legislatore poco attento, come è avvenuto con il decreto Madia 74/2017, che ha affidato agli organismi di valutazione (Oiv) gran parte dei compiti riducendo quelli dell’organo politico e dell’amministrazione.

La valutazione non può essere di competenza di un soggetto terzo, come sembra affermarsi nelle nuove riforme, ma del vertice dell’amministrazione. Altra cosa è il supporto tecnico. C’è forse in questi ultimi interventi l’idea di base che, non essendo la politica in grado di svolgere questa funzione, è meglio assegnarla ad altri. Una soluzione peggiore del male.

Impari la politica a programmare e ad assegnare obiettivi rilevanti per la collettività e misurabili. Adegui i propri uffici di diretta collaborazione e i propri staff con competenze adeguate. Anche se le leggi attuali del consenso sembrano premiare più la sagacia di un tweet che la qualità dei documenti di programmazione.

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