Amministratori

La revoca del contributo non dovuto non richiede una motivazione circostanziata

di Michele Nico

Quando la pubblica amministrazione annulla d'ufficio un provvedimento che comporta un esborso di denaro pubblico in contrasto con la normativa, non occorre una diffusa motivazione sulle ragioni di interesse pubblico che hanno indotto l'ente ad agire in sede di autotutela. Questo l'importante principio affermato dal Consiglio di Stato, con la sentenza n. 7246/2019, che ha accolto il ricorso della Regione Veneto contro la decisione del Tar che aveva annullato il decreto dirigenziale con cui l'ente aveva decurtato il contributo a favore di un'impresa inserita nella graduatoria di un bando per il parziale finanziamento con fondi europei dei costi d'investimento sostenuti nel settore dell'artigianato.

Il fatto
La Regione aveva deciso di ridurre il contributo spettante all'impresa (da 56.000 euro a 5.500 euro) in assenza dei presupposti previsti dal bando, che non contemplava contributi per edifici di nuova costruzione, realizzati dall'impresa nell'ambito dei relativi programmi d'investimento, ma solo contributi per l'acquisizione di locali, che dovevano già essere costruiti. Quindi il contributo all'impresa è stato drasticamente ridimensionato al solo importo commisurato alle spese di acquisto di nuove attrezzature.
Nella prima fase di giudizio il Tar Veneto aveva assunto una decisione non del tutto lineare, perché da un lato aveva asserito che quando la Pa annulla in autotutela un atto da cui deriva un esborso di denaro pubblico non occorre «una motivazione diffusa sulle ragioni di interesse pubblico» alla base dell'annullamento, «tanto più se l'atto è in contrasto con il diritto comunitario», ma d'altro lato aveva riconosciuto la fondatezza dell'aspettativa che aveva portato l'impresa a confidare nella liquidazione del contributo inizialmente determinato, osservando che la Regione Veneto avrebbe «perlomeno dovuto dare conto nell'atto impugnato della sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale a ridurre il contributo assegnato».
Di conseguenza, il Tar aveva annullato il decreto dirigenziale impugnato, e la Regione ha deciso di ricorrere in appello.

La decisione
Palazzo Spada ha rilevato la contraddittorietà della pronuncia impugnata, e ha aderito senza riserve alla tesi sostenuta dalla Regione.
I giudici hanno convenuto che «la revoca del contributo pubblico costituisce un atto dovuto per l'Amministrazione concedente, che è tenuta a porre rimedio alle conseguenze sfavorevoli derivanti all'erario per effetto di un'indebita erogazione di contributi pubblici» ogniqualvolta risulti che il beneficio sia stato accordato in assenza dei presupposti di legge, «essendo l'interesse pubblico all'adozione dell'atto in re ipsa quando ricorra un indebito esborso di danaro pubblico con vantaggio ingiustificato per il privato».
Di contro, nessun rilievo viene dato alle aspettative dell'impresa interessata, dacché la delibera con cui la giunta regionale aveva individuato i soggetti ammessi a contribuzione aveva fatto riserva della relativa rendicontazione, dando evidenza al fatto che «in alcuni casi potrebbe verificarsi l'ipotesi di una decurtazione del contributo in corso di esecuzione delle opere e della relativa rendicontazione dal momento che in fase istruttoria non sussistevano elementi sufficienti (…) a una puntuale determinazione della spesa ammissibile».

L'appello incidentale
È il caso di osservare che la Sezione, pur avendo affermato la legittimità del decreto dirigenziale impugnato, ha accolto anche l'appello incidentale proposto dall'impresa, e per l'effetto ha condannato la Regione Veneto a rifondere i danni per responsabilità precontrattuale.
Nello specifico, il collegio ha ritenuto illegittima la condotta dell'ente pubblico non già sotto il profilo dell'esercizio del potere di autotutela, quanto piuttosto per la disattenzione degli uffici regionali che hanno comunicato con grande ritardo all'impresa la parziale inammissibilità del contributo richiesto (dopo ben 5 anni dalla delibera di giunta che ha approvato l'elenco dei beneficiari).
Una siffatta disattenzione, si legge nella sentenza, connota un comportamento amministrativo «in contrasto con i canoni di correttezza e buona fede sanciti dall'articolo 1337 del codice civile, essendosi verosimilmente ingenerato nella società un ragionevole affidamento nella legittimità di questa delibera, e quindi nella circostanza di poter fruire il contributo nella misura ivi indicata, tale da indurla a portare avanti la propria iniziativa imprenditoriale».

La sentenza del Consiglio di Stato n. 7246/2019

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