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Partecipate, la maggioranza dei voti in assemblea non è controllo pubblico

di Gabriele Gagliardini

La situazione di «controllo pubblico» rilevante ai sensi e per gli effetti del Dlgs n. 175/2016 non è soddisfatta dalla titolarità della maggioranza dei voti esercitabili in assemblea in capo ai soci pubblici dovendo, piuttosto, ritenersi integrata soltanto quando, all’esito di una valutazione effettuata sulle disposizioni statutarie, si possa affermare che i soci pubblici hanno un’influenza determinante sulle decisioni finanziarie e gestionali strategiche della società. È quanto afferma il Tar Marche, con la sentenza n. 695/2019.

Il caso
La controversia sorge dal ricorso di una società mista di partenariato pubblico-privato istituzionalizzato (Pppi), concessionaria del servizio di gestione integrata dei rifiuti urbani nell’ambito territoriale dei Comuni soci.
Il socio pubblico principale, adottando la delibera di razionalizzazione annuale delle partecipazioni pubbliche imposta alle Pa dall’articolo 20 del Dlgs n. 175 del 2016 (Tuspp), riteneva la società ricorrente una società a controllo pubblico, come tale tenuta ad adeguare il proprio statuto al regime normativo più vincolante che gli articoli 3, 6, 11 e 22 del Testo unico prevede per tale tipologia di società.
La società impugnava il provvedimento sostenendo di dover essere considerata una società a partecipazione pubblica in quanto, contrariamente a quanto ritenuto dal Comune, la maggioranza delle quote societarie detenuta dai Comuni soci non avrebbe costituito requisito sufficiente ad integrare la nozione di controllo di cui all’articolo 2, comma 1, lett. b) e m) del Tuspp. Di conseguenza, non si sarebbe imposto l’adeguamento dello statuto societario alla disciplina legislativa delle società a controllo pubblico.
Per negare la sussistenza del controllo pubblico sulla società, la stessa ricorrente rilevava che lo statuto benché preveda che l’insieme dei Comuni detiene la maggioranza sia in assemblea sia nel consiglio di amministrazione, riservando inoltre la nomina del Presidente agli stessi soci pubblici, tuttavia attribuisce il potere di nomina dell’amministratore delegato ai due soci privati, di cui uno è il socio di maggioranza della società.
In considerazione di ciò, la ricorrente riteneva inconfigurabile un’influenza pubblica determinante sulle decisioni finanziarie e gestionali strategiche della società da parte della maggioranza pubblica.
I soci privati si costituivano in giudizio per sostenere le ragioni della ricorrente. Il Comune resistente e il Mef eccepivano l’infondatezza del ricorso.

La decisione
Il Tar ha accolto il ricorso qualificando la ricorrente come società a partecipazione pubblica non assoggettata a controllo pubblico.
Il Collegio ha concluso in tal senso muovendo dall’analisi delle disposizioni statutarie. Ha rilevato che lo statuto contiene sia clausole da cui poter desumere la sussistenza del controllo pubblico sia clausole che ne fanno ritenere l’assenza. Tra le prime vi rientrano: la maggioranza dei voti in assemblea e nell’organo di governo detenuta dell’insieme dei Comuni; la nomina della Presidenza da parte dei soci pubblici; la possibilità per questi ultimi di riunirsi in un comitato consultivo. Tra le seconde figurano: il socio di maggioranza della società è uno dei soci privati; il potere di nomina dell’amministratore delegato spetta ai due soci privati; la presenza di essi è necessaria per raggiungere il quorum della convocazione per l'assemblea straordinaria e, quindi, per le modificazioni statutarie.
Premesso ciò, il Collegio ha perimetrato la questione su cui esprimersi: se la maggioranza dei voti detenuta dai soci pubblici in assemblea ordinaria e in Cda sia sufficiente a configurare una società a controllo pubblico ai sensi dell’articolo 2 del Tuspp.
Sul punto, il Tar ha registrato due orientamenti contrapposti.
Il primo indirizzo, sostenuto dal Comune resistente, afferma la soluzione positiva in base al coordinamento normativo esistente tra l’articolo 2359 c.c. e l’articolo 2, comma 1, lett. b) e m) del Dlgs n. 175 del 2016.
L’articolo 2359 c.c. afferma che si considerano controllate le società in cui un’altra società dispone della maggioranza dei voti esercitabili nell’assemblea ordinaria.
L’articolo 2, lett. b definisce il «controllo», tra l’altro, tramite il rinvio all’articolo 2359 nel senso che si ha controllo quando una società dispone della maggioranza dei voti nell’assemblea della controllata.
A sua volta, la lettera m) definisce «società a controllo pubblico» la società in cui una o più Pa esercitano i poteri di controllo ai sensi della lettera b).
In questa prospettiva, ne consegue che quando le Pa dispongono della maggioranza dei voti nell’assemblea di una società, quella è una società a controllo pubblico (si veda, in questi termini, Corte dei conti, Sezioni unite controllo, 21 giugno 2019, n.11; parere del 15 febbraio 2018 della struttura di monitoraggio e controllo delle partecipazioni pubbliche del Mef).
Viceversa, il secondo orientamento afferma la soluzione negativa, reputando insufficiente il mero dato della maggioranza in assemblea e nell’organo di governo a integrare una situazione di controllo da parte dei soci pubblici.
Secondo tale posizione, l’accertamento della qualità di società a controllo pubblico postula un’indagine effettiva sulle disposizioni statutarie al fine di verificare se le amministrazioni che detengono le quote societarie sono in grado di influenzare le decisioni finanziarie e decisionali strategiche della società. Questa concezione più rigorosa di controllo pubblico trova fondamento, nello stesso articolo 2, comma 1, lett. b) del Tuspp, nella parte in cui esso dispone che si ha controllo pubblico anche quando, «in applicazione di norme di legge o statutarie o di patti parasociali, per le decisioni finanziarie e decisionali strategiche relative all’attività sociale, è richiesto il consenso unanime di tutte le parti che condividono il controllo» (Corte dei conti, Sezioni giurisdizionali riunite, 22 maggio 2019, n. 16; Tar Lazio, 19 aprile 2019, n. 5518).
Il Tar Marche ha condiviso quest’ultima versione di controllo pubblico effettuando, di conseguenza, un esame sulle disposizioni dello statuto per verificare se l’insieme dei soci pubblici avessero una partecipazione tale da avere un’influenza pubblica determinante sulla società.
L’esito del sindacato del Collegio ha escluso il controllo pubblico per le seguenti considerazioni:
a) il Comune socio pubblico principale ha una partecipazione inferiore ai due maggiori soci privati;
b) lo statuto assegna ai due soci privati la nomina dell’amministratore delegato, il quale cura, sebbene con alcune limitazioni, la gestione operativa della società, l’attuazione della sua volontà e il controllo del suo andamento;
c) le modifiche statutarie richiedono la presenza dei soci privati.
Il Tar Marche ha concluso aggiungendo che l’adesione all’altra concezione di controllo pubblico finirebbe per estendere eccessivamente la nozione con la conseguenza che la stessa risulterebbe applicabile in astratto e al di fuori di un effettivo controllo sull’attività societaria.

Le condizioni integranti il «controllo pubblico»
Alla luce della sentenza in commento si svela un contrasto di posizioni sulla nozione di controllo pubblico.
Il Tar marchigiano ha aderito alla concezione più rigorosa le cui condizioni integranti sono:
1)     l’esercizio di un’influenza determinante sugli obiettivi strategici e sulle decisioni significative della società partecipata, desunto da un sindacato sulle disposizioni statutarie della società;
2)     forme di coordinamento dei vari enti pubblici che detengono la maggioranza.
Sul piano normativo, va notato che tale elaborazione giurisprudenziale si sovrappone, almeno in parte, alla nozione di «controllo analogo congiunto» risultante dal combinato disposto tra l’articolo 2, comma 1, lett. d) del Tuspp e l’articolo 5, comma 5, del Dlgs n. 50/2016, che si ha quando:
a) gli organi decisionali della persona giuridica controllata sono composti da rappresentanti di tutte le amministrazioni aggiudicatrici o enti aggiudicatori partecipanti;
b) tali amministrazioni sono in grado di esercitare un’influenza determinante sugli obiettivi strategici e sulle decisioni di detta persona giuridica;
c) la persona giuridica controllata non persegue interessi contrari a quelli delle amministrazioni aggiudicatrici.
Sul piano applicativo, il maggior rigore di questa interpretazione delimita sensibilmente l’area delle società a partecipazione pubblica assoggettabili al regime più vincolante delle società a controllo pubblico.

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