Appalti

Sempre da motivare l'annullamento d'ufficio dei titoli edilizi

di Michele Nico

Alla luce dell'articolo 21-nonies della legge 241/1990, l'annullamento d'ufficio di un titolo edilizio illegittimo, intervenuto a distanza di anni dal provvedimento annullato, deve essere motivato dalla Pa documentando la sussistenza di un interesse pubblico attuale e concreto all'adozione dell'atto di ritiro, tenuto conto degli interessi dei privati destinatari del provvedimento sfavorevole.
Questo l'importante principio affermato dal Consiglio di Stato in Adunanza plenaria con la sentenza n. 8/2017, sulla base dell'ordinanza 19 aprile 2017 n. 1830, della Sezione IV che, ravvisando un contrasto giurisprudenziale circa un punto di diritto pregiudiziale al riesame della decisione del Tar Puglia, Sezione I n. 1636/2010, rimette appunto la questione all'Adunanza plenaria.

La vicenda
Nello specifico, la controversia presa in esame dal Tar prende le mosse dal ricorso dei due proprietari di un'area con soprastanti tre fabbricati, che impugnano l'ordinanza comunale con cui era stata annullata la concessione edilizia in sanatoria del 1999 avente a oggetto l'unità immobiliare adibita a guardiania, con l'ordine di immediata demolizione.
Va pure detto che tale unità faceva parte di un complesso ex industriale, composto anche da un capannone e da un fabbricato ad uso ufficio acquistato unitamente alla guardiania, che nel corso del tempo aveva mutato destinazione.
Infatti, con vari titoli abilitativi rilasciati dall'ente sino al 2005 l'originario capannone industriale era stato trasformato in cinema/teatro, mentre la ex guardiania era divenuta un esercizio commerciale adibito a bar/rosticceria.
Sennonché in esito al riscontro di varie irregolarità emerse nel corso di un sopralluogo del 2007 l'ente pubblico dava avvio ai procedimenti per l'annullamento dei titoli edilizi, sia per l'immobile adibito a cinema/teatro, sia per quello relativo al bar/rosticceria, con il risultato che il procedimento relativo al primo titolo veniva archiviato in ragione della ritenuta assenza di ragioni attuali di interesse pubblico in raffronto alla esigenze di certezza delle situazioni giuridiche, mentre la seconda istruttoria sfociava nel provvedimento di annullamento in autotutela, poi addotto in giudizio dinanzi al Tar Puglia.

L'annullamento d'ufficio
In sede di appello, come si è detto, la Sezione IV ravvisa l'esigenza di fare chiarezza sui presupposti per l'annullamento d'ufficio di un titolo edilizio rilasciato in sanatoria, e investe della questione l'Adunanza plenaria, prospettando alla stessa i due orientamenti divergenti in materia.
Da un lato, secondo alcune pronunce di Palazzo Spada l'annullamento d'ufficio di un titolo edilizio illegittimo è in re ipsa correlato alla necessità di curare l'interesse pubblico concreto e attuale al ripristino della legalità violata (Consiglio di Stato, Sezione IV, n. 3660/2016; Sezione V, n. 5691/2012).
Ciò, in quanto il rilascio di un titolo illegittimo determinerebbe in quanto tale la sussistenza di una permanente situazione contra ius, ingenerando in capo alla pubblica amministrazione il potere-dovere di annullare in ogni tempo il titolo edilizio illegittimamente rilasciato. Da questo angolo visuale, non sussisterebbe in capo all'ente uno specifico onere motivazionale a sostegno dell'autotutela, salvo il caso in cui l'esercizio dell'autotutela discenda da errori di valutazione imputabili alla stessa amministrazione (Consiglio di Stato, sezione V, n. 5691/2012).
Per contro, in base a un secondo orientamento, più recente e minoritario, anche nel caso di annullamento ex officio di titoli edilizi in sanatoria dovrebbero trovare integrale applicazione i presupposti legali di cui all'articolo 21-nonies, della legge 241/1990, non potendo l'amministrazione fondare l'adozione dell'atto di ritiro sul mero intento di ripristinare la legalità violata (Sezione VI, 351/2016; Sezione IV, 915/2013).
Da questo punto di vista, l'esercizio del potere di annullamento d'ufficio postula un apprezzamento discrezionale della Pa in ordine alla ragionevolezza del ritiro dell'atto e dell'interesse pubblico alla rimozione, unitamente alla considerazione dell'interesse dei destinatari (Consiglio di Stato, Sezione VI, 341/2017).

La decisione
Quest'ultima tesi, convalidata dai giudici in Adunanza plenaria, si fonda sulla garanzia della tutela dell'affidamento dei destinatari circa la certezza e la stabilità degli effetti giuridici prodotti dal provvedimento illegittimo, mediante una valutazione discrezionale volta alla ricerca del punto di equilibrio tra il ripristino della legalità violata e la conservazione dell'assetto regolativo impresso dal provvedimento viziato.
In conseguenza di ciò l'amministrazione che intenda procedere all'annullamento d'ufficio di un provvedimento di sanatoria deve curare giocoforza un bilanciamento motivato tra l'interesse pubblico al ripristino della legalità violata e l'interesse dei destinatari al mantenimento dello status quo.
Ad avviso del collegio occorre «responsabilizzare le amministrazioni all'adozione di un contegno chiaro e lineare, tendenzialmente fondato sullo scrupoloso esame delle pratiche di sanatoria o comunque di permesso di costruire già rilasciato, e sul diniego ex ante di istanze che si rivelino infondate, nonché sull'obbligo di serbare – in caso di provvedimenti di sanatoria già rilasciati – un atteggiamento basato sul generale principio di clare loqui».
Non si può dunque postulare in via generale e indifferenziata un interesse pubblico alla rimozione dei titolo illegittimi, bensì grava in via di principio sull'amministrazione l'onere di motivare la sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale alla rimozione dell'atto, tenendo altresì conto dell'interesse del destinatario al mantenimento dei relativi effetti.
A correttivo di tale principio, che vincola a precisi limiti l'esercizio della discrezionalità dell'ente pubblico, Palazzo Spada aggiunge che non sussiste l'esigenza di tutelare l'affidamento del terzo che abbia ottenuto un titolo edilizio in sanatoria rappresentando elementi non veritieri, e ciò anche nel caso in cui intercorra un considerevole lasso di tempo fra l'abuso e l'intervento repressivo dell'amministrazione (Consiglio di Stato, Sezione IV, 5198/2016; Sezione V, 2451/2014).

La sentenza dell'Adunanza plenaria del Consiglio di Stato n. 8/2017

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