Appalti

Appalti, per dimostrare l'inadempimento non serve il collaudo

di Giampaolo Piagnerelli

Per dimostrare il reato previsto dall'articolo 355 del codice penale, ossia l'inadempimento di contratti di pubbliche forniture, non occorre procedere al collaudo della struttura realizzata, ma è sufficiente che ci sia una relazione redatta dal responsabile unico del procedimento che dimostri, come nel caso di specie, che siano stati utilizzati materiali di scarsa qualità e le modalità di esecuzione non siano a norma. Questa la decisione (sentenza n. 19112/2018) della Cassazione con la quale è stato condannato penalmente il socio e presidente del cda della Srl appaltatrice dei lavori di ristrutturazione di un ospedale di Milano.

Il ricorso
Contro la sentenza di condanna dei giudici d'appello ha proposto ricorso il presidente della società, evidenziando come i giudici di seconde cure avessero ritenuto provato l'inadempimento del contratto d'appalto pubblico con oggetto le opere di forniture edilizie e impiantistiche del progetto di ristrutturazione presso il nosocomio, sulla base di un ragionamento presuntivo basato sulle testimonianze del Rup, del responsabile dei lavori e in base alla documentazione prodotta dalla parte civile, senza disporre le operazioni di verifica e controllo delle opere eseguite nel contraddittorio delle parti, sebbene obbligatorie e non sostituibili con altra modalità di accertamento. I Supremi giudici hanno rilevato che se da una parte il collaudo delle opere pubbliche è quel procedimento mirato a verificare che i lavori oggetto dell'appalto siano stati eseguiti a regola d'arte e secondo le prescrizioni tecniche pattuite nel contratto o oggetto delle eventuali varianti in corso d'opera, allo scopo di verificare la presenza di quelle condizioni per procedere al pagamento dei lavori svolti, dall'altra – si legge nella sentenza – l'articolo 355 del codice penale, ai fini dell'incriminazione, richiede che dall'inadempimento degli obblighi derivanti dal contratto di fornitura concluso con lo Stato sia derivata la mancanza totale o parziale di «cose o opere che siano necessarie a uno stabilimento pubblico o a un pubblico servizio». Il reato, pertanto, si integra a fronte da una qualunque inosservanza alle obbligazioni contrattuali che si traduca nella mancata fornitura, anche solo parziale, di quanto necessario per il funzionamento e per l'espletamento dell'attività di rilievo pubblicistico del committente pubblico. Situazione quest'ultima che i giudici di merito avevano provveduto ad accertare. In definitiva la Cassazione enuncia il principio secondo cui in un sistema processuale penale, quale il nostro, nel quale non sono contemplate prove legali e, in assenza nella disciplina positiva della prescrizione di un formale accertamento con collaudo dell'inadempimento rilevante ai fini dell'articolo 355 cp, non v'è materia per ritenere che il giudice penale sia obbligatoriamente vincolato a ritenere integrare detto reato a condizione che l'inosservanza alle obbligazioni di un contratto di fornitura verso l'ente pubblico sia stato accertato mediante un collaudo (negativo).

Il collaudo non è essenziale
Non è previsto da alcuna disposizione della legge penale-sostanziale o processuale – che il collaudo di un'opera costituisca modalità unica e imprescindibile per accertare l'inadempimento contrattuale ai fini della richiamata incriminazione potendo il giudice trarre la prova e il proprio convincimento dal fatto che l'appaltatore non abbia eseguito quanto si era impegnato contrattualmente a realizzare sulla base di prove raccolte nel corso del processo nel contraddittorio fra le parti. Sul fronte della condanna civile i giudici penali hanno rinviato la questione ai «colleghi» per determinare l'entità del danno morale subito dal nosocomio e segnatamente del nocumento all'immagine derivante dal non poter mettere a disposizione dei cittadini un proprio reparto di degenza chirurgica. In definitiva respinto il ricorso della ditta appaltatrice e condanna al pagamento delle spese processuali.

La sentenza della Corte di cassazione n. 19112/2018

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