Fisco e contabilità

«No» alla costituzione di società legittime ma inutili per l’ente

di Massimiliano Atelli

Ribaltando la decisione assolutoria di primo grado, motivata con l'argomento che la realizzazione della società partecipata non era vietata dall’ordinamento, ma addirittura era autorizzata e avvalorata dalla legge regionale, la II Sezione centrale d'appello della Corte dei conti, con la decisione del 3 febbraio 2017, n. 65, ha affermato che vi è danno erariale nel costituire una società sostanzialmente inutile, i cui costi di funzionamento (proprio per la disutilità del soggetto societario) non trovano corrispondenza in alcun «valore aggiunto» per l'ente pubblico che la costituisce (a fortiori, quando ciò comporti una significativa maggiorazione dei compensi per i soggetti cui erano cointestate funzioni quali amministratori o sindaci dell’ente pubblico socio e della società da esso partecipata).

Il caso
Nella specie, era in contestazione la costituzione di una struttura societaria che sostanzialmente duplicava i compiti di spettanza dell'Ater territoriale. Secondo la Procura, sebbene l’articolo 4, lettera g), della Lr n. 24 del 1999 – istitutiva delle Ater – prevedesse la possibilità per le Ater di promuovere la costituzione di società di capitale o la partecipazione a società di capitale per il migliore conseguimento delle proprie finalità, il ricorso allo strumento societario poteva ritenersi lecito solo nei casi in cui, a fronte di una valutazione costi-benefici, dallo stesso potesse derivare un valore aggiunto positivo per la gestione e il raggiungimento degli obiettivi istituzionali. Sennonché, sempre ad avviso dell'organo requirente, l’Ater di Pordenone aveva approvato la costituzione della società partecipata, con la partecipazione di maggioranza della stessa Ater, senza che sussistessero i presupposti di legge, come attestato anche dalla Regione che ad un dato momento invitò l’Ater ad uscire dalla compagine societaria.
La Procura contestava come danno l’ingiustificata duplicazione di spesa relativa agli oneri di funzionamento della partecipata, costituita dai costi sostenuti per il proprio funzionamento (gettoni al Cda, compensi al collegio sindacale, spese per la sede, consulenze e varie) che Ater non avrebbe dovuto sopportare se avesse gestito con la propria organizzazione i medesimi interventi, rientranti nell’ambito di attività dell’Ater.

Argomenti, spunti e considerazioni
La decisione della II Sezione centrale di appello della Corte dei conti persuade.
La Corte interviene, con una decisione ricca di buonsenso, in un ambito al centro da tempo di una dinamica sempre in bilico fra demonizzazioni pregiudiziali del fenomeno e, all'opposto, cronico ricorso allo strumento societario anche in casi in cui ciò andrebbe, evidentemente, evitato. Nel caso di specie, siamo di fronte al classico caso di competenza della Corte: una spesa inutile, che prende la forma della costituzione di una società, la quale, semplicemente, non serve a nulla. Spese inutili, a maggior ragione oggi che la «coperta si è fatta corta», il Paese non può permettersele, e tuttavia sprecare non è reato, sicché non esiste una risposta ordinamentale diversa da quella affidata alla magistratura contabile.
La Corte stabilisce se alla spesa (anche a quella per costituire, o, dato che si tratta dell'altro lato della stessa medaglia, per mantenere in vita una società inutile) è sottesa una utilità e, in caso affermativo, se l'utilità prevedibile sia proporzionata alle risorse investite per procurarsela. In caso negativo, procede alla condanna.
Che non è evitabile invocando l’insindacabilità nel merito delle scelte discrezionali prevista dall’articolo 1, comma 1, della legge n. 20 del 1994 (come modificato dal Dl n. 543 del 1996 convertito nella legge n. 639 del 1996), giacché - come chiarito anche dalla Cassazione - rileva in materia anche l’articolo 1, comma 1, della legge n. 241 del 1990, il quale stabilisce che l’esercizio dell’attività amministrativa deve ispirarsi ai criteri di economicità e di efficacia, che costituiscono specificazione del principio sancito dall’articolo 97, comma 1, della Costituzione e che hanno assunto rilevanza sul piano della legittimità dell’azione amministrativa. In sostanza, la verifica della legittimità dell’attività amministrativa non può prescindere dalla valutazione del rapporto tra gli obiettivi conseguiti e i costi sostenuti; e la violazione di tali criteri può assumere rilievo anche nel giudizio di responsabilità, dal momento che l’antigiuridicità della condotta costituisce un presupposto necessario (anche se non sufficiente) alla valutazione della colpevolezza del suo autore.
In conclusione, la Corte dei conti può «verificare la ragionevolezza dei mezzi impiegati in relazione agli obiettivi perseguiti, dal momento che anche tale verifica è fondata su valutazioni di legittimità e non di mera opportunità».

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