Fisco e contabilità

Derivati del Tesoro, clausole illegittime dal 1994

Il vizio alla base dei derivati dello Stato con Morgan Stanley, che è costato alla Banca d’affari e ai vertici passati e presenti del Tesoro la contestazione di un danno erariale da 3,9 miliardi in un processo contabile atteso il 19 aprile all’udienza, nasce nel 1994. Agli albori della Seconda Repubblica risale la clausola Ate (Additional Termination Event) in base alla quale la banca avrebbe potuto chiudere in anticipo gli swap quando la sua esposizione sul debito italiano avesse superato limiti predefiniti. Proprio questo meccanismo avrebbe messo nelle mani di Morgan Stanley le decisioni sugli swap che hanno prodotto i maxi-costi a carico del bilancio pubblico.
Proprio con la ricostruzione della Corte dei conti è sbarcata ieri la querelle dei derivati del Tesoro, con l’audizione del procuratore della Corte dei Conti Lazio Andrea Lupi e del sostituto Massimiliano Minerva che hanno portato avanti l’indagine ora arrivata a processo. A San Macuto era attesa in serata anche la “difesa” da parte di Maria Cannata, dg del debito pubblico al Tesoro, ma l’appuntamento è slittato (forse sarà sentita oggi) per l’esame prolungato di Gianni Zonin sul capitolo Popolare di Vicenza (si veda l’articolo a fianco).

La tesi della Procura della Corte dei conti
Nella tesi della Procura della Corte dei conti, il Tesoro si sarebbe comportato nei fatti come uno dei tanti Comuni che in passato, attratti da un piccolo pagamento iniziale (upfront) in cambio di rischi futuri, si sono trovati invischiati in swap divenuti ingestibili, e spesso annullati dai tribunali. Il ministero, in pratica, con il meccanismo delle opzioni (swaption) si sarebbe visto pagare qualche decina di milioni di euro la concessione a Morgan Stanley della possibilità di ottenere successivamente pagamenti miliardari.
Di qui il danno, calcolato dalla Procura contabile in 3,9 miliardi, per il 70% a carico della banca d’affari (chiamata in giudizio in quanto titolare nei fatti di un rapporto di servizio con il ministero) e per il resto diviso fra Cannata, gli ex dg del Tesoro Fabrizio Saccomanni e Domenico Siniscalco e l’attuale direttore Vincenzo La Via.

La clausola del 1994 e i contratti successivi
Con la clausola del 1994 e i contratti successivi, l’Italia avrebbe messo nelle mani della banca d’affari una fetta della propria sorte finanziaria: assumendo rischi «indefiniti e imprevedibili» in cambio di un vantaggio finanziario immediato, e modesto. Per avere un’idea del dare-avere è utile richiamare l’esempio di uno dei contratti, illustrato a San Macuto dai magistrati contabili: in cambio di un premio iniziale da 47 milioni nel 2004 l’Italia ha pagato sette anni dopo alla Banca d’affari 1,375 miliardi. «Una cifra astronomica», chiosa il procuratore Minerva.
Per i magistrati contabili, la vendita di opzioni da parte del Tesoro avrebbe portato a un’operazione speculativa, vietata dalle regole di finanza pubblica e per di più portata avanti senza le conoscenze adeguate. La swaption è un’assicurazione, che in questo caso è andata però a favore della banca, e ha permesso a Morgan Stanley di modificare lo scambio dei flussi pagando allo Stato un tasso fisso in cambio di uno variabile collegato all’andamento dei mercati.
Il rialzo dei tassi ha fatto scattare la clausola, che la banca non avrebbe esercitato in caso di andamento sfavorevole delle curve: una scommessa, nei fatti, impossibile da perdere per Morgan Stanley, e da vincere per il Tesoro. Lo stesso squilibrio, ovviamente, è alla base della possibilità concessa a Morgan Stanley di decidere da sola quando uscire dai derivati: le condizioni per farlo, cioè il superamento di limiti minimi di esposizione verso l’Italia, sono sempre stati presenti fin dal 2001, ma l’addio effettivo, con il pagamento del recesso da parte di Roma, è arrivato solo fra il dicembre 2011 e il gennaio 2012, con l’impennata dello spread.

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