Fisco e contabilità

Derivati di Stato per ridurre il deficit ma dal 2006 il «rosso» sale di 24 miliardi

Dal 2006 al 2016 hanno pesato sul deficit pubblico per quasi 24 miliardi di euro. Hanno attualmente un valore di mercato negativo di 31,8 miliardi. Di fatto hanno annullato per i conti pubblici italiani i benefici, in termini di risparmi in interessi, della politica monetaria della Bce. E oggi sono sotto accusa anche dalla Corte dei Conti. Di fronte a questo bollettino, viene da chiedersi come mai la Repubblica Italiana abbia stipulato nel corso degli ultimi 20 anni con le banche internazionali contratti derivati che si sono rivelati così gravosi sui conti pubblici. Il Sole 24 Ore, andando nel profondo dei dati Eurostat e confrontandosi con numerosi esperti, è in grado di dare una risposta: i derivati sono serviti per anni per “aggiustare” di qualche zero virgola (quando era consentito dalla legge europea) il rapporto tra deficit e Pil. Ora ne paghiamo il conto con un aggravio sullo stesso deficit. Che costringe il Paese a misure fiscali più austere di quanto sarebbe necessario senza derivati. A spese dei cittadini. Delle imprese. Dell’economia.
I derivati sono stati abbondantemente usati in alcuni momenti ben precisi. Il primo è nel 1997-1998, ai tempi del Governo Prodi, quando in gioco c’era l’ingresso nell’euro per il primo gennaio 1999. Quando i parametri di Maastricht decretavano chi era dentro e chi fuori la nuova moneta. Ebbene: l’intensa attività della Repubblica in derivati (che avevano breve durata) ha permesso di ridurre il deficit di 2,4 miliardi nel 1997 e di 3 miliardi nel 1998. Risparmiando 0,2 e 0,3 preziosi punti percentuali nel rapporto deficit/Pil. La seconda occasione è nel 2003-2004-2005, ai tempi del Governo Berlusconi. In questo caso l’intensa attività in derivati (a più lunga scadenza) ha consentito una riduzione del deficit di 1,18 e 1,31 miliardi rispettivamente, pari a 0,1 punti percentuali sul Pil l’anno. Morale: tra il 1997 e il 2005 i derivati hanno diminuito il deficit per un totale di 11,6 miliardi. Peccato che nei 10 anni successivi l’abbiano aumentato di quasi 24 miliardi. Il Bengodi è finito: ora lo zero virgola di spazio sul deficit possiamo solo “sudarcelo” a Bruxelles.

Gli anni delle vacche grasse

I derivati sono contratti finanziari che vengono stipulati con le banche d’affari per modificare “sinteticamente” le condizioni di un debito: con uno «swap» si può ad esempio trasformare un tasso variabile in un tasso fisso o un debito in dollari in uno in euro, in modo da “proteggersi” contro l’impennata dei tassi o l’oscillazione di una valuta. Ma dato che i derivati presuppongono uno scambio di denaro tra il debitore e la banca, a seconda di come si modula questo flusso di denaro possono anche essere usati per aggiustare poste di bilancio. È il caso dell’Italia prima dell’ingresso nell’euro e nei primi anni 2000, quando l’obiettivo - al Ministero dell’Economia - era proprio questo: usare i derivati per ridurre un po’ il deficit. Cioè per avere benefici immediati e costi futuri.
In quegli anni al Tesoro andavano di moda derivati «Irs» in cui l’Italia incassava dalle banche controparti un tasso fisso e pagava un tasso variabile. Dato che a quei tempi il tasso fisso era più elevato, l’Italia incassava più di quanto spendeva: il beneficio è stato appunto 11,6 miliardi di deficit in meno tra il 1997 e il 2005. Il problema è che la struttura di questi «Irs» prevede che dopo i benefici iniziali arrivi il conto: dal 2006 in poi l’Italia ha dunque iniziato a pagare (principalmente i derivati più recenti), non più a incassare. Tra il 2003 e il 2005 l’Italia vende anche con particolare lena particolari derivati che oggi sono sotto accusa, chiamati «swaption», che permettono di incassare nell’immediato un premio. Tutto fa brodo per migliorare il deficit. «A quei tempi si poteva operare in questo modo perché la contabilità pubblica era sostanzialmente per cassa - osserva Nicola Benini di Ifa Consulting -. Quando si incamerava un premio con i derivati, si riduceva il fabbisogno e dunque il deficit. Dopo il 2013, con le regole Sec 2010, questo non è più stato possibile».

Gli anni della crisi

Dopo il 2006, il ministero cambia strategia: invece di usare i derivati per ridurre il deficit, li utilizza per allungare in maniera sintetica la durata del debito pubblico. Inizia così a stipulare contratti «Irs» diversi da quelli precedenti: ora la Repubblica paga un tasso fisso e incassa dalle banche un tasso variabile. Dato che i derivati degli anni precedenti sono però in perdita, Via XX Settembre deve incorporare la perdita pregressa nei nuovi contratti. Il conto nei primi anni non è eccessivo, dunque nessun problema emerge. Ma tutto precipita dopo il 2008, con lo scoppio della crisi finanziaria: dato che le banche centrali tagliano i tassi fino a zero, gli ultimi «Irs» diventano un boomerang. Perchè costringono la Repubblica a pagare tassi fissi elevati e a incassare in cambio dalle banche tassi variabili ormai a zero. Il salasso inizia così: i tassi bassi, che dovrebbero aiutare un Paese iper-indebitato come il nostro, diventano insomma un boomerang.
Ma i problemi maggiori arrivano con la crisi dello spread, nel 2011, quando il Paese si trova nel mezzo di una bufera che rischia di mandarlo gambe all’aria. Le banche internazionali premono per ridurre l’esposizione sull’Italia: questo fa salire lo spread e il costo dei cosiddetti Cds. Via XX Settembre - con la pistola della speculazione puntata sulla testa - deve intervenire per bloccare la spirale perversa che può portare il Paese al default: deve dunque aiutare le banche estere a ridurre il rischio-Italia senza che questo si riverberi sui titoli di Stato. Come? Rinegoziando i derivati. I “vecchi” «Irs» che servivano per allungare la durata del nostro debito pubblico vengono bruscamente accorciati. Ma per incorporare la perdita ingente dei vecchi derivati nei nuovi, il Mef ha solo due strade: o aumenta l’importo nozionale dei contratti nuovi oppure peggiora il tasso. Per evitare entrambe le strade sceglie una terza via: rinegozia i derivati senza peggiorare troppo le loro condizioni, ma - come “contropartita” - vende nuove «swaption» alle banche. Offre a loro, insomma, “valore”. Nuovi coltelli dalla parte del manico. Per le banche.

Il risultato finale

Oggi i nodi sono al pettine. L’Italia è l’unico Paese in Europa che ha un impatto così negativo sui derivati di Stato. Gli altri Paesi, come la Germania o la Francia, perdono pochissimo. Alcuni, come l’Olanda, addirittura guadagnano con i derivati. Eppure i tassi sono scesi per tutti allo stesso modo. Oggi questi contratti pesano sul nostro deficit: nel 2016, per esempio, l’hanno aumentato di 4,2 miliardi, pari allo 0,3% del Pil. Che più o meno è la flessibilità che il Governo si trova a contrattare con l’Europa.

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