Fisco e contabilità

Pubblicità e insegne, verso lo stop del Mef agli aumenti comunali

Per imprese e commercianti potrebbe arrivare presto una buona notizia sul fronte fiscale: notizia che ai Comuni costerebbe però 3-400 milioni di euro secondo le prime stime.

Al dipartimento Finanze è infatti pronta una risoluzione (la n. 2/2018) che prova a chiudere la lunga battaglia fra sindaci da un lato e imprese e commercianti dall’altro sulla validità dei vecchi aumenti dell’imposta di pubblicità. In pratica, nel testo della risoluzione preparata per rispondere all’Associazione delle aziende pubblicitarie si stabilisce che gli aumenti, taciti o espliciti, introdotti dopo il 26 giugno 2012 non sono validi. Un problema per i bilanci, ma anche per i funzionari che dovrebbero disporre i rimborsi, perché senza una delibera di annullamento degli aumenti non sarebbero legittimati a restituire un euro: di qui l’esigenza, se la bozza preparata dal ministero dell’Economia sarà confermata, di cancellare in autotutela le maggiorazioni.

L’intrreccio delle norme
Per capire la questione bisogna addentrarsi nell’ennesimo ginepraio normativo di cui il fisco locale è sempre prodigo. Il problema riguarda le imposte locali chieste sui cartelloni pubblicitari e sulle insegne, e disciplinate dal decreto legislativo 507 del 1993 (lo stesso che ha introdotto la Tarsu sui rifiuti).
Quattro anni dopo, una Finanziaria (legge 449/1997, all’articolo 11) ha permesso ai Comuni di aumentare del 20% dal 1998 e del 50% dal 2000. Questa regola è stata in vigore per dodici anni fino a quando un decreto taglia-leggi, il n.83/2012, l’ha cancellata. Sul piano normativo l’ultima puntata della serie è arrivata con la manovra del 2016, in cui al comma 783 è stato spiegato che l’abrogazione non aveva effetto per i Comuni che avessero deciso gli aumenti prima del 26 luglio 2012, data di entrata in vigore del taglia-leggi.
Tutto chiaro? Nemmeno per sogno, ovviamente. Nei Comuni, infatti, gli aumenti di tributi e tariffe si possono confermare espressamente, con delibera, o tacitamente, cioè evitando di modificarli. E da qui è nato l’interrogativo sulla legittimità del comportamento di chi ha mantenuto gli aumenti in maniera tacita, come accaduto nella maggioranza dei casi.

Gli orientamenti della giurisprudenza
La Corte costituzionale, con la sentenza 15/2018 (si veda il Quotidiano degli enti locali e della Pa del 31 gennaio), ha respinto la questione di legittimità sulla norma interpretativa del 2015, spiegando che si limitava a salvare gli aumenti decisi prima del 26 giugno 2012. E ha richiamato una sentenza del Consiglio di Stato (la 6201/2014 ) con cui i giudici amministrativi hanno spiegato che le conferme, tacite o esplicite, degli aumenti devono tener conto della legislazione vigente, e quindi non possono confermare maggiorazioni non più previste dalla legge. Di qui la data spartiacque del 26 giugno 2012, che aprirebbe le restituzioni per gli aumenti decisi nella seconda metà di quell’anno (quando il termine per preventivi e tariffe scadeva il 30 ottobre) e, soprattutto, negli anni successivi.

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