Fisco e contabilità

Corte dei conti: l’Irpef schiaccia il ceto medio Fornero, stop alle correzioni

L’Irpef attuale schiaccia il ceto medio, ma la Flat Tax potrebbe non essere la soluzione per le sue ricadute sui redditi più bassi; e su un bilancio pubblico che, demografia alla mano, deve sostenere una spesa per welfare e pensioni dove «sono stretti, se non del tutto esauriti, gli spazi» per ammorbidire la riforma Fornero.
I messaggi arrivano chiari dal Rapporto 2018 sul coordinamento della finanza pubblica che la Corte dei conti ha presentato ieri a Montecitorio. Il Rapporto, 392 pagine di analisi scandite da una fittissima teoria di grafici e tabelle, nasce per dare al Parlamento i numeri che sarebbero necessari per costruire le scelte su tasse, pensioni, investimenti pubblici e assistenza. E i numeri raccontano spesso storie che restano in ombra nel dibattito politico.

Per esempio spiegano che l’obiezione sull’illegittimità della Flat Tax perché non progressiva «non è fondata», si legge nel rapporto, perché la richiesta dell’Erario va modulata con le deduzioni e le detrazioni. Ma che per farlo bisogna partire dalla situazione reale, per cui le proposte di tassa piatta finora emerse sono «poco significative se collocate al di fuori di una revisione strutturale del sistema». Sistema che oggi non funziona, perché nonostante la risalita ripida delle aliquote «non consente un trasferimento netto di ricchezza» dal basso verso l’alto. Come mai?

Oggi il 60% dell’Irpef è sulle spalle dei redditi fra 15mila e 55mila euro, e la concentrazione si fa massima nel terzo scaglione (28-55mila euro lordi all’anno) che da solo paga il 31,5% del totale. Si tratta, spiega la Corte, di «un onere improprio su redditi medi e medio-bassi», alimentato dal fatto che in Italia dichiarata al fisco quelli alti sono mosche bianche. Dal secondo (15-28mila euro) al terzo scaglione (28-55mila, appunto) il salto è brusco, perché l’aliquota legale sale di 11 punti (dal 27 al 38%) ma soprattutto crolla di 28 punti l’utilizzo delle detrazioni.

E proprio sugli sconti fiscali si incontra l’altro lato del problema, che complica i conti sulla strada della tassa piatta. Il Rapporto si infila nel calcolo della richiesta reale prodotta dall’Irpef a ogni fascia di contribuenti, frutto dell’aliquota “legale” che determina l’imposta lorda ma anche degli sconti che alleggeriscono il conto netto. Le detrazioni si scaricano sul secondo scaglione (44,9% del totale) più che sul primo (33,3%), anche perché fra chi dichiara fino a 15mila euro molti sono «incapienti» e non hanno quindi spazio per utilizzare gli sconti del fisco. Il risultato è una curva Irpef reale molto diversa da quella legale: l’aliquota effettiva (cioè la percentuale di imposta netta rispetto al reddito) si ferma al 5,2% per i redditi fino a 15mila euro, sale al 14,4% per la fascia 15-28mila euro e arriva al 21,4% per il terzo scaglione, su su fino al 33,2% chiesto in media a chi dichiara più di 75mila euro. Insomma: nei primi due scaglioni, dove si affolla il 52,5% degli italiani, l’aliquota reale di oggi è più bassa del 15% intorno al quale ruotano i progetti di Flat Tax, e soprattutto per i redditi più bassi la deduzione di base da 3mila euro terrebbe la richiesta molto più in alto dell’attuale (l’aliquota effettiva per un single si attesterebbe fra il 10% per un reddito da 9mila euro e il 12% per chi ne dichiara 12mila).

Mettere ordine nel fisco, insomma, non è affare da un giorno, e la sfida è complicata dalla bomba demografica che pesa sui conti pubblici italiani. Per effetto di una crescita che rimane più modesta rispetto ai modelli usati nelle analisi di sostenibilità della spesa previdenziale, spiega la Corte richiamando le ultime analisi della Ragioneria, le pensioni rischiano di produrre un debito Pil di 8 punti più alto del previsto intorno al 2040, e 32 punti aggiuntivi nel 2070. In quell’anno, nonostante le dinamiche migratorie, l’Italia avrà 6,5 milioni di abitanti in meno.

Tempi lunghi, certo, ma i conti della previdenza si giocano sui decenni e non sui mesi. Le riforme previdenziali degli ultimi 15 anni, Fornero in primis, secondo i calcoli della Corte evitano all’Italia 60 punti di debito cumulato fino al 2050, con una correzione che i magistrati giudicano «brusca» ma inevitabile «per la virulenza della crisi sovrana che l’ha imposta». Tornare indietro, in quest’ottica, metterebbe a rischio una riforma che è stata decisiva per salvare i conti.

Il rapporto della Corte dei conti

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