Fisco e contabilità

Sulle dismissioni degli immobili pubblici parte il tavolo con privati e Comuni

Nella complessa trattativa con Bruxelles per provare a evitare, o quanto meno a posporre nel tempo gli effetti della procedura d’infrazione, il Governo prova ad accelerare sul fronte delle dismissioni. A partire dal patrimonio immobiliare. Impresa a dire il vero alquanto ardua, poiché i tentativi più recenti di procedere attraverso il doppio binario della valorizzazione e successiva dismissione di tranche degli immobiliare pubblico si sono infranti contro il muro di diversi vincoli: molti immobili, come le caserme, sono di proprietà della Difesa, quelli dei comuni sono soggetti a vincolo urbanistico. Tanto che nella versione aggiornata del Documento programmatico di Bilancio inviata a Bruxelles, la stima da incassi derivanti dalle vendite di immobili pubblici non va oltre i 640 milioni nel 2019, poco più dei 600 milioni attesi per l’anno in corso. Contributo modesto dunque alla privatizzazione del patrimonio pubblico annunciata dal Governo, che dovrebbe consentire di incassare circa 18 miliardi da convogliare alla riduzione del debito pubblico.

Per renderlo più consistente entra in campo ora l’Agenzia del Demanio, su input del ministero dell’Economia, partendo da una prima ricognizione che riguarda gli uffici pubblici. Una mini spending review che passa da una ricognizione diretta all’ottimizzazione degli spazi degli uffici pubblici e una nuova politica di efficientamento energetico degli immobili, da cui si stimano possibili risparmi sui costi di gestione fino al 30 per cento. In questa prima fase è stato attivato un tavolo di confronto tra il Mef, il ministero delle Infrastrutture, l’Anci per i Comuni, Assoimmobiliare per la parte relativa agli investitori e all’industria immobiliare, l’Ance per i costruttori. È un primo segnale, evidentemente, poiché l’obiettivo finale atteso dall’intero pacchetto delle dismissioni atteso per il 2019 appare a dir poco ambizioso, ed è difficilmente realizzabile se non verranno coinvolti i privati per investire sugli asset pubblici con procedure accelerate che coinvolgano anche gli enti locali.

Per le dismissioni delle quote attualmente detenute dallo Stato, si ipotizza il rafforzamento patrimoniale di Cassa depositi e prestiti, mettendo mano anche alle partecipazioni residue in Eni, Enav, Enel, Leonardo, Stm, nonché alla seconda tranche di Poste. Come riportato dal Sole24Ore lo scorso 15 novembre, il passaggio consisterebbe in un aumento di capitale riservato che farebbe salire la partecipazione del Mef in Cdp. Tutta l’operazione è da condurre in stretto coordinamento con Bruxelles, per superare le obiezioni avanzate lo scorso anno da Eurostat, che da tempo ha posto sotto osservazione Cdp, il cui perimetro resta attualmente al di fuori della PA, ma che potrebbe subire una riclassificazione proprio per effetto del suo coinvolgimento nel passaggio delle quote residue di Enav ed Eni.

La Commissione europea, nella decisione assunta lo scorso 21 novembre, con cui si è avviato di fatto l’iter per la procedura di infrazione per disavanzo eccessivo motivato dalla violazione della regola del debito, non ha valutato l’impatto dell’annunciato piano di dismissioni del patrimonio pubblico. Le cifre in ballo non paiono certo risolutive, e tuttavia potrebbero costituire un segnale, appunto, da mettere in campo da qui al 22 gennaio, quando saranno i governi a pronunciarsi sull’apertura della procedura di infrazione. Si lavora sui tempi, e sui margini aggiuntivi di cui potrebbe disporre il Governo qualora Bruxelles optasse per la scadenza dei sei mesi (e non di tre mesi) entro cui occorrerebbe definire le misure correttive evitando che scattino le eventuali sanzioni.

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