Fisco e contabilità

Dopo la bocciatura della Consulta a rischio dissesto finanziario molti enti locali

di Antonio Infantino

La bocciatura del comma 714 della legge 208/2015, come sostituito dal comma 432 della manovra di bilancio 2017, avvenuta con la sentenza della Corte costituzionale n. 18/2019, rischia di provocare una serie di dissesti finanziari non solo nella amministrazioni locali che hanno diluito in trent'anni i disavanzi provenienti dal riaccertamento straordinario dei residui, effettuati in occasione dell'adozione dei piani di riequilibrio, ma anche in quelle che hanno utilizzato la norma censurata per restituire, sempre in trenta anziché in dieci anni, il fondo di rotazione ricevuto dallo Stato.

La norma dichiarata incostituzionale
La norma dichiarata incostituzionale consentiva agli enti in pre-dissesto che avevano presentato il piano o ne avevano conseguito l'approvazione dalla Corte dei conti prima del 30 aprile 2015 di rimodularlo o riformularlo per ripianare il disavanzo derivante dalla predetta revisione dei residui, utilizzando il termine più lungo previsto dal DM 2 aprile 2015.
Il secondo periodo del comma 714, poi, permetteva agli stessi enti, indipendentemente dalla facoltà concessa di rimodulare i piani di riequilibrio, di dilazionare per un pari periodo (30 anni) anche il pagamento delle rate dell'anticipazione di liquidità, prevista dall'articolo 243-ter del testo unico. Si trattava, in sostanza, di un riallineamento normativo, quello di diluizione dei disavanzi, con la disciplina più favorevole del ripiano trentennale, prevista in occasione del passaggio ai nuovi principi contabili armonizzati.
Questo è quello che emerge in superficie, perché nella decisione della Consulta le cose sembrano essere molto diverse. Nella sentenza, infatti, è rimarcato come la norma ha determinato un ampliamento della capacità di spesa ben oltre la dimensione di crescita accetabile della parte corrente del bilancio, negli enti in conclamato squilibrio finanziario, alterando le regole sull'indebitamento, in una palese violazione del principio di solidarietà intergenerazionale, facendo gravare sulle amministrazioni future il riparto trentennale del deficit. In questo modo, sempre secondo la Corte, gli enti fruirebbero di un allargamento della spesa corrente, fino al limite tempoGrale di 30 anni, in misura pari ai minori accantonamenti in bilancio, mantenendo inalterato il piano di pagamento con i creditori. C'è, però, anche un altro aspetto che vale la pena sottolineare. In alcuni casi oltre al disavanzo registrato in sede di predisposizione del piano di riequilibrio si è aggiunto alche quello derivante dal riaccertamento straordinario al 1° gennaio 2015.
Le due operazioni contabili, pur simili sulla carta, erano riconducibili a norme con contenuto e finalità molto diverse. Se le due discipline avessero conseguito lo stesso risultato, al primo deficit particolarmente corposo, derivante dal piano di risanamento, avrebbe dovuto seguire un disavanzo straordinario al 1° gennaio 2015 più contenuto. È evidente che questo non si avrebbe potuto realizzarsi, poiché la disciplina contabile sottesa alle due attività di revisione dei residui (da piano e da applicazione dei principi contabili) era differente e, di conseguenza, non si sarebbero mai potuti ottenere risultati compatibili.
Per fare un esempio, in sede di redazione del piano, nel 2014, non c'era alcun obbligo di accantonamento al fondo crediti di dubbia esigibilità e al fondo per le passività potenziali. Quello dei pre-dissesti, in sostanza, non era un disavanzo proveniente dall'applicazione della nuova contabilità, bensì il risultato (negativo) derivante dall'insussistenza dei residui attivi o da pregressi disavanzi di gestione. Si potrebbe aprire una discussione ben più lunga sui riaccertamenti straordinari effettuati in modo opportunistico solo per usufruire di un termine lunghissimo per ripianare i deficit finanziari. Comportamenti censurati più volte dalle sezioni regionali di controllo della Corte dei conti negli ultimi anni, in sede di esame dei provvedimenti adottati dagli enti locali.
Oltre a tanto si deve aggiungere che una scoordinata proliferazione legislativa ha reso interminabili le istruttorie dei piani presentati, con continue rimodulazioni e riformulazioni degli stessi, utilizzate dagli enti solo per procrastinare una invitabile dichiarazione di dissesto.

I possibili effetti della decisione della Corte costituzionale
Quello che accadrà nei prossimi mesi è un disastro annunciato. Aprirà per diverse amministrazioni locali la porta alla dichiarazione di dissesto perché la gestione finanziaria degli enti in riequilibrio non reggerà il peso di due fattori negativi : il maggiori disavanzo e la più alta rata più alta del fondo di rotazione, da iscrivere nel prossimo bilancio di previsione.
Con la norma cassata la diluizione del debito sarebbe durata fino al 2044. Con quella prevista, in origine, dall'articolo 243-bis poteva durare, al massimo, fino al 2023, qualora il ricorso al pre-dissesto fosse avvenuto, al più tardi, entro il 2014. Questo vuol dire triplicare gli accantonamenti in bilancio facendo diventare insostenibili le misure di risanamento. ì
Si potrebbe osservare che anche il piano inziale aveva le gambe di argilla e che l'opportunità offerta dall'ormai defunto comma 714 è stata colta al volo da Comuni e Province solo per evitare che le Corti dei conti regionali certificassero il fallimento finanziario e l'insostenibilità delle ipotesi di riequilibrio, con una bocciatura dei piani presentati.
Rimane, comunque, al di là delle interpretazioni e delle considerazioni che saranno fatte, un dato di cui il legislatore si dovrà fare carico, ossia un problema, già sollevato, di coordinamento tra vecchie e nuove norme. I Comuni che hanno chiesto l'accesso al pre-dissesto prima del 2018 hanno potuto spalmare debiti e disavanzi al massimo in 10 anni, al netto di quelli, pochi, che hanno potuto utilizzare la norma ponte inserita nella legge di bilancio 2018 per rimodulare i piani con le nuove scadenze differenziate che vanno dai 4 ai 20 anni.
Gli enti, invece, che hanno aderito alla procedura dopo il 1° gennaio dello scorso anno possono ripianare la loro massa passiva in ragione della sua incidenza sulla spesa corrente dell'ultimo rendiconto approvato. Ciò determina una evidente disparità di trattamento legata solo al momento temporale in cui si fatto ricorso all'istituto del ripiano pluriennale. Dopo questa decisione shock, soprattutto per diversi Comuni di medie e grandi dimensioni, forse è il momento di ripensare, in modo organico, alla disciplina del dissesto e della procedura di riequilibrio in modo da trattarle unitariamente e, si spera, in maniera più flessibile (è impensabile che un piano approvato nel 2013 rimanga immutato per 10 anni !), anche per evitare che il documento di risanamento pluriennale sia solo la stura per adottare comportamenti dilatori che non hanno condotto in passato, e non potranno portare in futuro, veri risanamenti dei conti pubblici locali, contribuendo solo ad acuire lo stato di crisi finanziaria di molti enti locali.

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