Fisco e contabilità

Danno erariale alla concessionaria della riscossione che non riversa l'imposta sulla pubblicità

di Luciano Cimbolini

La Corte dei conti, Sezione giurisdizionale per il Veneto, con la sentenza n. 24/2020, ha condannato per danno erariale il Presidente del Consiglio di amministrazione e amministratore della società concessionaria del servizio di riscossione delle imposte sulla pubblicità e diritti di affissione in numerosi enti locali veneti e il Presidente del Cda e l'amministratore unico della Spa proprietaria di una quota del 99,9% della concessionaria della riscossione, per l'importo, corrispondente al mancato versamento nelle casse pubbliche degli enti veneti degli importi riscossi dalla concessionaria stessa nel periodo 2008/2013.
I convenuti, in qualità di agenti contabili di diritto e di fatto, mediante l'utilizzo di appositi conti correnti "segreti", avevano sottratto agli enti locali ingenti somme versate dai contribuenti a titolo di imposta di pubblicità. Il fatto, connotato da palesi profili di peculato, già ampiamente documentato da indagini penali anche in altre regioni del Nord Italia, ha già dato luogo a simili condanne per danno erariale da parte di altre Sezioni giurisdizionali. La condanna da parte dei giudici veneti, anche tenuto conto della contumacia dei convenuti, può apparire, pertanto, in un certo senso, scontata. Molto interessanti sono, però, i profili giuridico-contabili riportati in motivazione relativamente al rapporto fra ente pubblico e concessionario della riscossione.

Secondo i giudici veneti, l'attività di accertamento e riscossione dell'imposta comunale ha natura di servizio pubblico e l'obbligazione del concessionario di versare all'ente locale le somme a questo titolo incassate ha natura pubblicistica, essendo regolata da norme che deviano dal regime comune delle obbligazioni civili a causa della tutela dell'interesse della pubblica amministrazione creditrice alla pronta e sicura esazione delle entrate. Il rapporto tra società ed ente si configura, pertanto, come rapporto di servizio, in quanto il soggetto esterno si inserisce nell'iter procedimentale dell'ente, come compartecipe dell'attività pubblicistica di quest'ultimo. La società concessionaria riveste la qualifica di agente contabile, non rilevando in contrario nella sua natura di soggetto privato, né il titolo giuridico in forza del quale il servizio viene svolto.

È necessario e sufficiente, difatti, che, in relazione al maneggio di danaro, sia costituita una relazione tra ente pubblico e altro soggetto, per la quale la percezione del denaro avvenga, in base titolo di diritto pubblico o di diritto privato, in funzione della spettanza del denaro all'ente pubblico e secondo uno schema procedimentale di tipo contabile. Ne consegue che la società, in quanto incaricata di riscuotere denaro di spettanza dello Stato di enti pubblici, del quale ha il maneggio nel periodo compreso tra la riscossione e il versamento, riveste la qualifica di agente contabile con obbligo alla resa dei conti giudiziali e, ove disponga delle somme ricevute con modi e fini diversi da quelli dovuti, potrà essere assoggettata alla giurisdizione della Corte dei conti per la cognizione dell'azione di responsabilità contabile promossa dalla Procura contabile. A questo fine è rilevante non tanto il titolo in base al quale la gestione del pubblico denaro è stata svolta, quanto piuttosto la natura del danno conseguente alla mancata realizzazione della finalità.

Nel caso di specie, emerge con tutta evidenza, che la concessionaria del servizio di riscossione ha disatteso ripetutamente ai propri obblighi connessi e funzionali alla realizzazione della potestà impositiva dei Comuni, nonché ai compiti prettamente contabili di rendicontazione all'ente locale e di veridica resa del conto giudiziale.

La sottrazione delle somme versate dai soggetti passivi dell'imposta sulla pubblicità e diritti di affissione agli enti locali configura una evidente violazione non solo delle norme dei capitolati d'oneri sulle concessioni assentite, ma anche delle disposizioni del decreto del ministero delle Finanze 26 aprile 1994 e del decreto legislativo 507/1993. La Sezione veneto, inoltre, censura anche l'uso distorto dei meccanismi del cosiddetto «minimo garantito» e del «canone fisso» quali modalità di remunerazione delle concessioni con gli enti locali, che ha consentito il perpetrarsi dell'illecita appropriazione di danaro pubblico con elusione dei controlli da parte dei Comuni.

Nella quasi totalità dei contratti di concessione del servizio di riscossione e di accertamento dei tributi locali stipulati con la società, infatti, era previsto il «minimo garantito» che prevedeva il versamento, da parte della società di riscossione, di un importo che non poteva essere inferiore a quanto pattuito, mentre il calcolo del corrispettivo su base percentuale (aggio) doveva riferirsi all'eccedenza del minimo garantito. Nel caso in cui fosse pattuito il canone fisso, l'importo prestabilito del corrispettivo da versare all'ente locale rimaneva invariato e scisso dal totale del riscosso il quale restava nella disponibilità della società concessionaria. Come sottolineato nella sentenza penale del Gip di Milano, la concessionaria versava ai Comuni il fisso convenuto o una somma corrispondente alla percentuale pattuita su una contabilità che non comprendeva gli accrediti confluiti nei conti segreti. E questo, di fatto, era sufficiente ad elidere il rischio di controlli e contestazioni da parte degli enti locali; controlli in concreto resi impossibili poiché la concessionaria si limitava ad un sommario rendiconto annuale cui calcolata la percentuale spettante, non corredato da pezze giustificative.

La sentenza della Corte dei conti Veneto n. 24/2020

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