Fisco e contabilità

Cassazione, derivati dei Comuni nulli senza approvazione del consiglio

di Francesco Machina Grifeo

Giro di vite della Cassazione sui derivati degli enti locali. Per le Sezioni unite civili, sentenza n. 8770 di ieri, sono nulli i tre contratti di Interest rate swap stipulati (tra il maggio 2003 e l'ottobre del 2004) dal Comune di Cattolica con la Banca Nazionale del Lavoro, in quanto nonostante la presenza di clausole "upfront" non avevano ricevuto l'approvazione del consiglio comunale, sempre necessaria per le operazioni di indebitamento. L'assemblea infatti aveva unicamente fornito delle «linee di indirizzo», ma i contratti erano stati poi decisi dalla giunta e, addirittura, in due casi, direttamente con determina dirigenziale. L'upfront - vale a dire il pagamento ricevuto dal soggetto inizialmente svantaggiato (in questo caso il municipio) - per la Suprema corte, va infatti parificato a creazione di nuovo "debito" (nel caso per circa 1 mln di euro) e dunque è sottoposto alle medesime procedure.

Confermata dunque la decisione della Corte d'appello di Bologna che nel 2014 aveva disposto la ripetizione degli importi corrisposti dalla banca al comune fino al 2010 (555mila euro) e soprattutto dal comune alla banca (oltre 1 milione di euro).

La Suprema corte ripercorre l'avvicendarsi delle norme: dal sostanziale via libera all'utilizzo di strumenti derivati per gestire il debito dato dalla Finanziaria del 2002 sino al divieto pressoché totale con la legge n. 147 del 2013 (salvo alcune eccezioni) dopo il disastro finanziario dei comuni. Il fenomeno che ebbe il suo apice nel 2007 con 669 amministrazioni locali sottoscrittrici per un nozionale di 31,5 miliardi (circa il 30% del debito) e un valore di mercato negativo di quasi un miliardo di euro, risulta oggi ridotto ad un quarto nei volumi (secondo una indagine Bankitalia dello scorso anno), anche se il valore negativo resta alto (sempre intorno ad 1mld, per via dei bassi tassi di interesse).

«L'autorizzazione alla conclusione di un contratto di swap da parte dei Comuni italiani – si legge nella decisione -, specie se del tipo con finanziamento upfront, ma anche in tutti quei casi in cui la sua negoziazione si traduce comunque nell'estinzione dei precedenti rapporti di mutuo sottostanti ovvero anche nel loro mantenimento in vita, ma con rilevanti modificazioni, deve essere data, a pena di nullità, dal Consiglio comunale, non potendosi assimilare ad un semplice atto di gestione dell'indebitamento dell'ente locale con finalità di riduzione degli oneri finanziari, adottabile dalla giunta comunale».

Non solo, il riconoscimento a concludere questi contratti, «sulla base della disciplina vigente sino al 2013 e della distinzione tra i derivati di copertura e i derivati speculativi, in base al criterio del diverso grado di rischiosità di ciascuno di essi, comportava che solamente nel primo caso l'ente locale potesse dirsi legittimato a procedere allo loro stipula». «Nondimeno, tale stipula poteva utilmente ed efficacemente avvenire solo in presenza di una precisa misurabilità/determinazione dell'oggetto contrattuale, comprensiva sia del criterio del mark to market, sia degli scenari probabilistici, sia dei cd. costi occulti, allo scopo di ridurre al minimo e di rendere consapevole l'ente di ogni aspetto di aleatorietà del rapporto, costituente una rilevante disarmonia nell'ambito delle regole relative alla contabilità pubblica, introduttiva di variabili non compatibili con la certezza degli impegni di spesa riportati in bilancio».

La sentenza della Corte di cassazione n. 8770/2020

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