Fisco e contabilità

Ripiano straordinario dei disavanzi, la Consulta «boccia» la prospettiva di indebitamento illimitata

di Luciano Cimbolini

La Corte costituzionale, con la sentenza n. 115/2020 (si veda Il Quotidiano degli enti locali e della Pa del 24 giugno), ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'articolo 38, comma 2-ter, del decreto legge 34/2019, che, in sostanza, stabilisce che la riproposizione del piano di riequilibrio degli enti in cosiddetto predissesto deve contenere il ricalcolo pluriennale, fino a un massimo di venti anni, del disavanzo oggetto del piano modificato «ferma restando la disciplina prevista per gli altri disavanzi».

Nel dichiarare non ammissibili o nel respingere le censure di incostituzionalità di altre norme del Dl 34/2019 sul piano di riequilibrio finanziario pluriennale (soprattutto l'articolo 38, comma 2-bis), la Consulta ha affrontato alcuni principi già presenti in precedenti decisioni al fine di delimitare le facoltà del legislatore in materia su tempi e modalità di ripiano straordinario dei disavanzi delle amministrazioni territoriali. In merito all'interpretazione della sentenza n. 18/2019 (si veda Il Quotidiano degli enti locali e della Pa del 15 febbraio 2019), la Consulta precisa (aspetto questo fondamentale) che il profilo costituzionalmente censurato da questa non è la durata trentennale in sé considerata, bensì il meccanismo privo di sostenibilità economico-finanziaria che la disposizione denunciata (articolo 1, comma 714, della legge 208/2015) autorizzava secondo prospettive di indebitamento illimitate.

Partendo da questo assunto, nel caso delle norme previste dall'articolo 38 del decreto legge 34/2019, il problema non consiste nella durata astrattamente fissata nel limite di venti anni per il ripiano, bensì nel meccanismo di manipolazione del deficit che consente, al pari della norma cassata con la sentenza n. 18/2019, di sottostimare, attraverso la strumentale tenuta di più disavanzi, l'accantonamento annuale finalizzato al risanamento e, dunque, di peggiorare, anziché migliorare, nel tempo del teorico riequilibrio, il risultato di amministrazione.

Questo meccanismo manipolativo consentirebbe, tra l'altro, una dilatazione della spesa corrente (pari alla differenza tra la giusta rata e quella sottostimata) che finisce per incrementare progressivamente l'entità del disavanzo effettivo.
L'articolo 38, 2-ter, autorizza, infatti, gli enti locali che si trovano nelle condizioni ivi indicate, a tenere separati disavanzi di amministrazione ai fini del risanamento e a ricalcolare la quota di accantonamento indipendentemente dall'entità complessiva del deficit. La Corte chiarisce, invece, che ogni bilancio consuntivo può avere un solo risultato di amministrazione, che deriva dalla sommatoria delle situazioni giuridiche e contabili degli esercizi precedenti fino a determinare un esito che può essere positivo o negativo. Ammettere più disavanzi significa, in pratica, acconsentire a tenere più bilanci consuntivi in perdita.

Gli articoli 81 e 97, primo comma, della Costituzione risultano, dunque, violati perché il censurato comma 2-ter esonera l'ente locale in predissesto da una serie di operazioni indispensabili per ripristinare l'equilibrio e, in particolare, dall'aggiornamento delle proiezioni di entrata e di spesa, dalla ricognizione dei debiti e dei crediti, dalla previa definizione degli accordi con i nuovi creditori e con quelli vecchi eventualmente non soddisfatti, nonché dalla ricognizione e dimostrazione della corretta utilizzazione dei prestiti ottenuti per adempiere alle pregresse obbligazioni passive.

Gli articoli 81 e 97 risultano violati, insieme all'articolo 119, comma 6, della Costituzione anche sotto il profilo dell'equità intergenerazionale, in quanto il comma 2-ter consente di utilizzare risorse vincolate al pagamento di debiti pregressi per la spesa corrente, in tal modo allargando la forbice del disavanzo.

Analoga violazione sussiste sotto il profilo della responsabilità di mandato, nella misura in cui l'ente locale in predissesto viene esonerato dal fornire contezza dei risultati amministrativi succedutisi nel tempo intercorso tra l'approvazione del piano originario e quello rideterminato. Secondo la Corte, il bilancio è un «bene pubblico» nel senso che è funzionale a sintetizzare e rendere certe le scelte dell'ente territoriale, sia in ordine all'acquisizione delle entrate, sia alla individuazione degli interventi attuativi delle politiche pubbliche. È dovere inderogabile per chi amministra una collettività sottoporsi al giudizio finale riguardante il confronto tra il programmato e il realizzato. È evidente che un consistente lasso temporale, senza neppure specificare da quale bilancio consuntivo e da quale gestione annuale sia stato originato il deficit, interrompe completamente la correlazione tra attività del rappresentante politico e risultati imputati alle collettività amministrate succedentesi nel tempo.

La sentenza, infine, chiarisce che la Corte non ha mai individuato un limite temporale alla durata del piano di riequilibrio, pur avendo in più occasioni ammonito il legislatore statale sulle potenziali conseguenze negative delle deroghe alla fisiologica situazione dell'equilibrio del bilancio, che di regola andrebbe ripristinata immediatamente dall'amministrazione nel corso del cui mandato il disavanzo si è venuto a formare. Così come ha più volte ribadito che, ferma restando la discrezionalità del legislatore nello scegliere i criteri e le modalità per porre rimedio a situazioni di emergenza finanziaria come quelle relative ai disavanzi sommersi, non può non essere sottolineata la problematicità di soluzioni normative, mutevoli e variegate che prescrivono il riassorbimento dei disavanzi in archi temporali lunghi e differenziati, ben oltre il ciclo di bilancio ordinario, con possibili ricadute negative anche in termini di equità intergenerazionale.

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