Personale

Il collocamento in disponibilità non comporta la risoluzione del rapporto di lavoro

di Federico Gavioli

La Corte di cassazione con la sentenza n. 3738/2017, ha affermato che nel pubblico impiego non è possibile procedere con il licenziamento dei dipendenti pubblici, perché questi hanno diritto alla conservazione del posto di lavoro; è possibile procedere al loro collocamento in disponibilità con la sospensione delle obbligazioni riguardanti il rapporto di lavoro (si veda anche Il Quotidiano degli enti locali e della Pa del 14 febbraio scorso) .

Il contenzioso
La Corte di appello, riformando in parte la sentenza di primo grado, in accoglimento dell'appello principale proposto da una Camera di commercio, industria, artigianato e agricoltura, ha rigettato integralmente le domande proposte da un dipendente , il quale aveva agito per l'annullamento della determina commissariale con cui era stato collocato in disponibilità, ai sensi dell'articolo 33 del Dgs 165/2001 (nel testo vigente anteriormente alla riforma di cui al Dlgs 150/2009), e del piano triennale del personale allegato al provvedimento, per ottenere la condanna della Camera di commercio al pagamento delle differenze retributive tra l'indennità percepita dal 1° luglio 2005 alla scadenza del periodo di disponibilità e la retribuzione che gli sarebbe spettata nello stesso periodo. Il dipendente aveva agito anche per il risarcimento dei danni che assumeva essergli derivati dal mobbing e dal demansionamento subito. I giudici del merito avevano evidenziato che il procedimento delineato dall'articolo 33 del Dlgs 165/2001, ricalca le previsioni della legge 223/1991 in tema di eccedenze di personale; tuttavia, il collocamento in disponibilità, come atto finale della procedura, non dà luogo nell'impiego pubblico, a differenza dell'impiego privato alla risoluzione del rapporto di lavoro, configurandosi come mera sospensione nel tempo del rapporto, con sostanziali tratti di analogia con l'istituto della cassa integrazione guadagni; ove alla scadenza del periodo massimo di sospensione non sia possibile procedere alla collocazione del personale in disponibilità presso una diversa amministrazione, il rapporto si intende definitivamente risolto ope legis a tale data. Avverso la sentenza sfavorevole il dipendente è ricorso in Cassazione.

L'analisi della Cassazione
I giudici di legittimità osservano che il tema centrale della controversia riguarda l'interpretazione della disciplina di cui all'articolo 33 (eccedenze di personale e mobilità collettiva) del Dlgs 165/2001, nel testo vigente ratione temporis, anteriormente nelle modifiche apportate dal Dlgs 150/2009. I giudici di legittimità evidenziano che , in tema di pubblico impiego contrattualizzato, l'organizzazione, la consistenza e la variazione delle dotazioni organiche sono determinate in funzione dell'efficienza dell'amministrazione, della razionalizzazione del costo del lavoro pubblico e della migliore utilizzazione delle risorse umane, in conformità ai principi espressi dagli articoli 1, comma 1, e 6 del Dlgs 165/2001, restando rimessa alla discrezionalità della Pa la determinazione e revisione della pianta organica . La disciplina di cui all'articolo 33 in esame, conferma che ogni amministrazione valuta discrezionalmente in modo unilaterale l'entità e la tipologia degli esuberi. Il presupposto causale della mobilità collettiva, rappresentato da situazioni di eccedenza, non ulteriormente qualificate, rimanda a quelle valutate dalla pubblica amministrazione come attinenti alla sfera degli interessi pubblici. La Cassazione osserva che, nel lavoro pubblico, all'esito della procedura regolata dall'articolo 33 e successivi, non si può far luogo al licenziamento dei lavoratori eccedenti, poiché costoro hanno diritto alla conservazione del rapporto, seppure sospeso, per un periodo massimo di due anni, durante il quale il lavoratore è collocato in disponibilità. Secondo un consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità è stato osservato che il collocamento in disponibilità non dà luogo, in relazione al rapporto di pubblico impiego, alla risoluzione del rapporto di lavoro, come avviene invece nell'area dei rapporti di lavoro privato, configurandosi nel suddetto settore una mera sospensione nel tempo del rapporto (con sostanziali tratti di analogia sul punto con il diverso istituto, proprio del settore privato, della cassa integrazione guadagni), destinata a protrarsi per il periodo massimo di 24 mesi, previsto per un possibile diverso impiego presso la stessa amministrazione ovvero per una diversa ricollocazione presso altre amministrazioni o sino al momento in cui il dipendente non abbia preso servizio presso la diversa amministrazione che, secondo gli accordi intervenuti, ne avrebbe consentito la ricollocazione. Dalla data di collocamento in disponibilità «si sospendono» tutte le obbligazioni concernenti il rapporto di lavoro per avere il lavoratore diritto soltanto a un’indennità pari all'80% dello stipendio e all’indennità integrativa speciale per un massimo di due anni, ed escludendosi anche la corresponsione di qualunque altro elemento retributivo (e quindi di qualsiasi trattamento indennitario accessorio), comunque denominato. Con riferimento all'articolo 33 del Dlgs 165/2001, i giudici di legittimità ritengono che la procedura prevista trovi applicazione solo «quando l'eccedenza riguardi almeno 10 dipendenti». Il limite numerico si intende raggiunto anche in caso di dichiarazioni di eccedenza distinte nell'arco di un anno (a ritroso dall'ultima), con il fine di evitare eventuali elusioni dei vincoli legali perseguite attraverso il frazionamento nel tempo delle eccedenze. Tuttavia, seppure di regola l'eccedenza di personale viene ad emersione nell'ambito dell'attività programmatoria triennale di cui all'articolo 6 del Dlgs 165/2001, non può escludersi che eccedenze possano verificarsi successivamente e in seguito a eventi sopravvenuti e imprevisti.

Le conclusioni
La Corte di cassazione evidenzia che i giudici del merito hanno correttamente rilevato che in capo alla pubblica amministrazione vige l'obbligo di repechage, ossia l'obbligo di adoperarsi affinché venga presa in considerazione ogni possibilità di diverso impiego o di ricollocazione alternativa del lavoratore dipendente; la Pa è tenuta a dimostrare l'impossibilità di una ricollocazione alternativa del dipendente all'interno della stessa amministrazione (cosiddetto repechage), anche alla stregua di eventuali previsioni contrattuali in deroga al secondo comma, dell'articolo 2103 del Codice civile, nonché a dimostrare l'adempimento dell'obbligo di comunicazione ex articolo 34 del Dlgs 165/2001 ai fini dell’iscrizione del personale in disponibilità negli appositi elenchi, finalizzati al recupero delle eccedenze di personale anche presso altre pubbliche amministrazioni. Nel caso di specie la Cassazione conferma la sentenza della Corte territoriale che ha ritenuto che la Camera di commercio avesse fornito un'adeguata giustificazione dell'impossibilità di riempiego nella stessa amministrazione; la Corte , pertanto, ha rigettato il ricorso del dipendente.

La sentenza della Corte di cassazione n. 3738/2017

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