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Dal Lazio ricetta innovativa per le selezioni nella sanità

«Quello che si dovrebbe fare ma non si riesce». Così Raffaella Saporito conclude sul Sole 24 Ore del 5 giugno un commento sul tema della selezione della dirigenza pubblica, a seguito della sentenza del Tar sui direttori dei musei. È condivisibile la sua analisi sui limiti normativi e culturali delle modalità prevalenti di reclutamento, ma credo allo stesso tempo che esistano pratiche che testimoniano la possibilità di esercitare una forma diversa, e migliore, di selezione dei manager pubblici. Penso che Regione Lazio sia tra queste esperienze.
L’autrice richiama il fatto che nel Lazio siedano a dirigere un servizio sanitario - che vale più di 11 miliardi di euro l’anno - direttori generali con alle spalle una solida esperienza di manager nella sanità. Non si tratta certamente di un caso. Quando nel 2013 progettammo (verbo che utilizzo non a caso) il percorso di reclutamento dei vertici della sanità laziale, compiemmo delle scelte precise. In primo luogo, andavamo alla ricerca di professionisti con un “profilo manageriale” fortemente orientato al risultato e al cambiamento. Perché il nostro obiettivo era un rapido percorso di aggiustamento dei conti e della produttività delle aziende sanitarie e degli ospedali.

Un mix tra regole pubbliche e ricorso a «cacciatori di teste»
Infatti non ci siamo fermati alla mera applicazione delle regole nazionali di selezione dei dg (per le quali è sufficiente avere nel curriculum cinque anni di esperienza dirigenziale nel settore), ma abbiamo svolto una selezione con un mix tra selezione pubblica e ricorso a “cacciatori di teste”. Così abbiamo sottoposto tutti coloro che si erano candidati e avevano i requisiti di legge (più di 600 professionisti) al Minnesota test, metodologia molto utilizzata in ambito clinico per verificare il profilo psicologico di una persona. Avevamo infatti tarato il test per selezionare, tra i partecipanti, quei professionisti con maggiore attitudine all’assunzione di responsabilità, propensione al rischio e predisposizione a decidere. Abbiamo infine sottoposto quelli con i migliori risultati del test a un confronto con una commissione di alto profilo (due accademici di rango del management sanitario come Francesco Longo e Marco Frey e un esperto con lunga seniority nel settore come Franco Riboldi) per esaminare le carriere di ciascuno e ottenere indicazioni sul contesto aziendale migliore dove “collocare” quel tipo di competenze. Il risultato è stata una short list di professionisti “descritti” nelle loro caratteristiche e attitudini di direzione aziendale.

Una selezione a caldo
Cosa ci ha insegnato questa esperienza? In primo luogo, che anche nella Pa si può mettere in campo una modalità di selezione efficace, non meramente documentale (il più classico dei concorsi); una selezione vera, che definirei “a caldo”, perché sottopone professionisti adulti a una prova stressante e significativa, davvero importante poiché andranno poi a ricoprire incarichi che comportano scelte gestionali dure, competenze relazionali sofisticate e capacità di sopportare stress e pressione notevoli. In secondo luogo, che si può percorrere questa scelta difendendola fino in fondo e portandola a coerenza anche in un settore (le nomine in sanità) esposto ai rischi di cattura da scelte di natura politica. Ovvero, in questo caso la scelta politica c’è stata eccome: quella di evitare scorciatoie e assumere il rischio di innovare un metodo. In terzo luogo, abbiamo imparato che bisogna mantenere la coerenza con questo approccio: dopo avere selezionato i manager è necessario valutarli con lo stesso rigore, e per questa ragione non abbiamo confermato tutti. Chi non ha assicurato i risultati gestionali attesi è stato sostituito.
A distanza di quattro anni i conti della sanità laziale sono tornati sotto controllo e gli standard di offerta per i Lea migliorano. Questo dimostra che la scelta ha pagato. Tornando all’inizio: si dovrebbe fare e, quando accade, funziona.

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