Personale

Abuso d’ufficio del direttore generale dell’ateneo: l’interdizione non è automatica

Nessuna interdizione dal proprio ufficio per il direttore generale dell'Ateneo che revoca ingiustamente un professore dal Cda arrecandogli un danno. Nonostante, infatti, l’atto sia tale da far presumere una responsabilità penale, non sussistono le esigenze cautelari che giustificano la misura interdittiva della sospensione se manca il pericolo concreto della reiterazione dell'abuso. Lo afferma la Cassazione nella sentenza n. 43643 depositata ieri.

Il caso
Protagonista della vicenda è Filippo Del Vecchio, ex direttore generale dell'Università degli Studi di Chieti, finito al centro di indagini giudiziarie per falso in atto pubblico ed abuso d'ufficio. In particolare, all'ex direttore veniva contestata l'illiceità dell'atto di revoca dell'incarico di membro del Cda dell'Ateneo del professor Capasso, divenuto altresì direttore del museo universitario, negando a quest'ultimo la scelta per l'una o l'altra carica, tra loro incompatibili. Con tale revoca, cioè, il professore veniva privato della facoltà di optare per una delle due cariche entro il termine e con le modalità stabilite dall'articolo 19 del D.lgs. 39/2013, recante “Disposizioni in materia di inconferibilità e incompatibilità di incarichi presso le pubbliche amministrazioni e presso gli enti privati in controllo pubblico”.

La decisione
Durante la fase cautelare, sia il Gip che il Tribunale del riesame avevano applicato all'ex direttore la misura interdittiva della sospensione dal pubblico ufficio svolto, ma la Cassazione la annulla accogliendo il ricorso dell'ex direttore. Nello specifico, in primo luogo, la Suprema corte censura l'operato del dirigente, reo di aver scambiato la condizione di incompatibilità del professore ad esercitare entrambe le cariche con «una sorta di causa di ineleggibilità», che avrebbe dovuto impedire allo stesso docente di candidarsi a direttore del museo. Fermo restando l'illegittimità della revoca, però, i giudici di legittimità osservano che non sussistono le condizioni per l'applicazione della misura interdittiva in questione.
Ebbene, per la Corte, manca l'attualità del pericolo, ovvero il presupposto implicito per l'adozione della misura cautelare, consistente «nella prognosi di commissioni di delitti analoghi, fondata su elementi concreti, rivelatori di una continuità ed effettività del pericolo di reiterazione». In altri termini, se non c'è il pericolo che il reato possa essere nuovamente commesso, la misura interdittiva non ha ragion d'essere. E nel caso di specie, «la gestione personalistica della cosa pubblica e l'uso disinvolto delle funzioni rivestite, oltre alla violazione delle regole di corretta amministrazione connotano le modalità soggettive di commissione dei reati», ma nulla dicono in relazione al pericolo concreto della commissione di fatti analoghi.

La sentenza della Corte di cassazione n. 43643/2017

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