Personale

La partita fisso-variabile complica la trattativa

Dopo i giri di riscaldamento dei mesi scorsi, le trattative per il rinnovo dei contratti nel pubblico impiego dovranno affrontare una domanda semplice nei contenuti ma complicata nella risposta: quanti degli 85 euro lordi devono andare sul tabellare, la quota fissa dello stipendio, e quanti vanno invece destinati alla parte variabile, e in particolare ai premi per gli uffici e i dipendenti più “produttivi”?
I sindacati premono per mettere tutto sul tabellare, dando al nuovo contratto la funzione di recuperare un po’ del tempo perduto in termini di perdita di potere d’acquisto delle buste paga; la direttiva “madre” della Funzione pubblica, che fissa i principi da accogliere in tutti i comparti, indica invece una prospettiva diversa, e chiede di seguire nella distribuzione degli aumenti la divisione attuale tra stipendi e indennità: oggi in media il tabellare copre l’80% della busta paga, in un quadro che varia dall’88,5% di fisso nella scuola al 53,3% di Palazzo Chigi (dove gli stipendi sono più alti della media), e gli 85 euro in arrivo dovrebbero più o meno replicare questa architettura.

Misurazione delle performance
Anche sul tema eterno della misurazione delle performance e della conseguente assegnazione dei premi di produttività, la quadratura del cerchio è tutta da trovare. La riforma Madia ha cancellato i pilastri del decreto Brunetta del 2009, mai attuato, che puntava l’enfasi sulla produttività individuale e avrebbe imposto di distinguere i dipendenti di ogni ufficio in tre fasce rigide di merito, azzerando i premi almeno a un quarto del personale. Le nuove regole riportano il baricentro sui risultati degli uffici, e chiedono alle amministrazioni di garantire una «significativa differenziazione» nei giudizi, quindi negli euro in busta paga: spetta ai contratti il compito di indicare come tradurre in pratica questo ennesimo tentativo.

La “piramide rovesciata”
Le posizioni iniziali appaiono distanti anche sulla cosiddetta “piramide rovesciata”, il meccanismo che secondo il governo dovrebbe concentrare gli aumenti sulle fasce più basse di stipendio. La questione si incrocia con gli effetti collaterali sul bonus da 80 euro: l’intesa del 30 novembre 2016 assicura che gli aumenti contrattuali non faranno perdere il bonus a chi lo riceve oggi, e la ricerca dei fondi in manovra va nella stessa direzione. Una clausola di questo tipo può però far storcere il naso al mondo privato, dove non esistono garanzie analoghe, al punto che nelle scorse settimane si è tornati a discutere sulla possibilità di trasformare il bonus in una detrazione fiscale per farlo entrare a pieno titolo nei meccanismi dell’Irpef: ma l’ipotesi, rilanciata anche dalla segretaria generale della Cgil Susanna Camusso, già in passato era stata bloccata dai troppi problemi tecnici e politici che si porta dietro.

I tempi
A pesare sulle trattative è però anche il calendario. Governo e sindacati hanno l’interesse comune di archiviare il tutto in tempo per incidere sugli stipendi di marzo-aprile, quando sono in programma le elezioni politiche e il rinnovo delle Rsu del pubblico impiego. Ma per centrare l’obiettivo occorrerebbe chiudere il tutto intorno a metà dicembre, perché dopo la firma all’Aran (l’agenzia che rappresenta la Pa come datore di lavoro) i contratti devono tornare sui tavoli di governo e Corte dei conti per le verifiche finali: un’impresa che oggi pare quasi impossibile. Per scuola e autonomie locali, oltre che per tutte le aree dirigenziali, manca ancora anche l’atto di indirizzo, cioè la mossa iniziale del confronto.

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