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Tocca ai nuovi contratti disinnescare i tagli sui redditi da 24-25mila euro

Ottantacinque euro lordi contro 80 netti. Messo in termini brutali, suona così il problema che continua ad agitare il pre-partita delle trattative per i nuovi contratti nel pubblico impiego. Il punto è semplice: l’aumento da 85 euro lordi promesso con il rinnovo produrrebbe un taglio o l’azzeramento del bonus Renzi per circa 300mila dipendenti pubblici, perché gli 80 euro dipendono dal reddito. Il governo ha promesso una tutela, ma non sarà la manovra a fissare la clausola: dovranno pensarci i contratti, come del resto era stato previsto dall’intesa con i sindacati del 30 novembre 2016.

Le differenze in busta paga
L’obiettivo è chiaro, meno la strada per raggiungerlo. Il problema riguarda chi oggi ha un reddito fra 23mila e 25.500 euro circa, e si attende dai nuovi contratti un aumento da 1.105 euro lordi all’anno. Fra 24mila e 26mila euro di reddito, infatti, il bonus Renzi applica il decalage, che abbassa l’aiuto all’aumentare dei guadagni dichiarati. Chi oggi si colloca a 23mila euro o poco sopra, quindi, con l’aumento entra nella fascia del decalage, per chi è poco sopra l’effetto è l’alleggerimento del bonus da 80 euro e dai 25mila in su la prospettiva è di uscire del tutto dal raggio d’azione del bonus. Il costo medio è quindi intorno ai 40 euro al mese, mentre tra Irpef e addizionali gli aumenti da 85 euro lordi si trasformano in circa 60 euro netti.
Il quadro effettivo, però, cambia drasticamente di busta paga in busta paga. L’incrocio di aumenti e perdita dei bonus, infatti, finirebbe addirittura per alleggerire di 20-30 euro al mese il reddito di chi oggi guadagna fra 24 e 25mila euro, mentre azzererebbe di fatto gli aumenti contrattuali per chi si attesta a 23.500 euro annui. L’incrocio pericoloso fra contratti e bonus diminuisce poi i propri effetti al crescere del reddito, per scomparire del tutto da 26mila euro in su.
Offrire però un aumento effettivo maggiore a chi oggi guadagna di più non è possibile, per ovvie ragioni. Toccherà ai contratti, e ai bilanci autonomi nel caso di regioni, enti locali, sanità e università, sbrogliare la matassa, ma come?

Il meccanismo della piarmide rovesciata
Nelle intenzioni del governo il ruolo principale nel tentativo di sminare il terreno da questi effetti collaterali tocca alla “piramide rovesciata”, cioè al meccanismo che dovrebbe concentrare gli aumenti nelle fasce di reddito più basse e in quelle più a rischio perdite per la questione 80 euro. L’intesa firmata lo scorso anno con i sindacati spiega infatti che i nuovi contratti dovranno attribuire aumenti da «85 euro medi», ma nulla dice sulla distribuzione delle risorse lasciando piena libertà alla contrattazione. Ma a risorse date, ovviamente, ogni euro dato in più a una parte di dipendenti è un euro in meno riconosciuto agli altri, e le obiezioni sindacali non mancheranno.
I “tavoli” dovranno comunque fare un lavoro di fino anche per un altro particolare, non secondario. Non è il solo reddito da lavoro a decidere la distribuzione degli 80 euro, che si basa invece sulle entrate complessive dichiarate dall’interessato. Nel gioco, quindi, entrano variabili imprevedibili per i contratti, dalla presenza di eventuali redditi aggiuntivi (basta l’affitto di un box, per esempio) e dalle detrazioni che possono azzerare l’Irpef lorda. Per assegnare a tutti la tutela che serve bisognerebbe quindi decidere di accantonare una parte delle risorse, per gestire ex post la distribuzione del bonus come accade a livello generale con le dichiarazioni dei redditi. Un lavoro complicatissimo, e difficile da approntare per il solo pubblico impiego mentre i rinnovi contrattuali dei privati si disinteressano del problema.

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