Personale

Sono da retribuire le mansioni di fatto effettivamente esercitate anche se il titolo è «irregolare»

di Giovanni La Banca

L’espletamento di prestazioni di fatto, anche se eseguite in virtù di un titolo irregolare o annullabile, fa nascere, in capo al prestatore di lavoro, il diritto a percepire la relativa retribuzione. Lo ha precisato la quarta sezione del Consiglio di Stato, con la decisione n. 5599/2017.

La vicenda
Il Tar del Lazio rigettava il ricorso proposto da un magistrato volto ad ottenere l’annullamento del provvedimento del Csm con cui era stata denegata la richiesta di autorizzazione alla proroga dell’incarico di consigliere giuridico dell’Ufficio commissariale per l’emergenza nel territorio del bacino del fiume Sacco. Il magistrato, in passato, era stato più volte autorizzato all’espletamento di tale incarico e aveva richiesto un’ulteriore proroga: solo a seguito dell’avvenuta presa di servizio, il Csm aveva deliberato negativamente.

La disciplina normativa
In materia di conferimento di incarichi extragiudiziarii, l’ordinamento giudiziario viene integrato dall’articolo 53 del Dlgs n. 165/2001, norma pacificamente applicabile al Csm, giacché anche l’organo di autogoverno della magistratura ordinaria rientra le pubbliche amministrazioni. Il predetto articolo 53 prevede espressamente che, con appositi regolamenti, sono individuati gli incarichi consentiti e quelli vietati ai magistrati ordinari, amministrativi, contabili e militari. Il Csm, con la circolare n. 15207/1987, ha disposto che il Consiglio deve decidere entro 30 giorni dalla ricezione della richiesta; se questo termine non viene rispettato, l’interessato, decorsi inutilmente i 30 giorni, potrà iniziare a svolgere l’incarico, che, tuttavia, dovrà immediatamente cessare (se ancora in atto) se, successivamente, intervenga una deliberazione negativa. Il termine, peraltro, decorre solo nell’ipotesi in cui l’istante abbia trasmesso tutta la documentazione prescritta. Detta disciplina introduceva una significativa deviazione rispetto al meccanismo del silenzio assenso, in quanto prevedeva che una risposta “tardiva” negativa, pur intervenendo successivamente alla scadenza dei 30 giorni fissati dalla legge per provvedere, equivalesse comunque a un diniego valido ed efficace.

Il risarcimento del danno e la retribuibilità delle mansioni di fatto
Al dipendente che ha svolto il servizio pertanto spetta il danno per il periodo intercorrente tra la formazione del silenzio assenso e la contestata delibera con la quale gli è stata negata l’autorizzazione. In particolare, il dipendente ha titolo a una somma corrispondente agli emolumenti per l’incarico espletato, relativi al periodo che va dal momento in cui era spirato il termine di 30 giorni dalla trasmissione della domanda di proroga alla data di comunicazione del diniego. Infatti, in questo lasso di tempo, il dipendente ha in buona fede svolto l’attività oggetto dell’incarico e va tutelato l’affidamento da questi riposto sulla stabilità del titolo “per silentium” formatosi. Peraltro, avendo effettivamente svolto la detta attività, tale statuizione appare conforme al principio della retribuibilità delle cosiddette mansioni di fatto effettivamente esercitate, seppur sulla scorta di un titolo “irregolare”. Siffatte assunzioni temporanee, pur non essendo suscettibili di convertirsi in rapporti a tempo indeterminato, sono soggette alla disciplina di cui all’articolo 2126, c.c., sulle prestazioni di fatto eseguite con violazione di legge, secondo cui, in ogni caso, il prestatore di lavoro ha diritto alla retribuzione. Questa disciplina non realizza un’ingiustificata disparità di trattamento in danno dei lavoratori assunti a termine rispetto a quelli assunti da datori di lavoro privati, dato che il divieto di conversione dell’assunzione a termine in contratto a tempo indeterminato risponde a criteri di ragionevolezza ed è ispirato alla tutela di superiori interessi pubblici di natura generale, mirando a garantire esigenze di risanamento della finanza locale.

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