Personale

Vietato al dipendente pubblico lavorare a chiamata fuori dall'orario di servizio

di Federico Gavioli

Con la sentenza n. 28797/2017, la Corte di cassazione ha affermato che per il dipendente pubblico, fuori dall'orario di servizio, non è consentito ricorrere all'instaurazione di un rapporto di lavoro intermittente.

Il contenzioso
La vicenda riguarda un dipendente pubblico, assunto con contratto a tempo indeterminato come impiegato tecnico, cui era stato contestato di avere, in costanza di rapporto sottoscritto, un contratto di chiamata intermittente con una società per lo svolgimento dell'attività di autista, alla quale si erano affiancate altre prestazioni. L’uomo per questo motivo era stato licenziato.
L'ex dipendente evidenzia che nella contestazione l'ente pubblico aveva richiamato la disposizione contrattuale, che fa divieto al dipendente di attendere «durante l'orario di lavoro» a occupazioni estranee al servizio, sicché andava considerato che nello svolgimento della prestazione lavorativa il suo comportamento era stato sempre improntato alla massima diligenza.

La decisione
La Cassazione ha osservato , in riferimento al ricorso dell'ex dipendente, che è da escludere che la norma si riferisca solo a condotte tenute durante l'orario di servizio perché, come si desume con chiarezza dal tenore letterale della disposizione contrattuale, le parti collettive hanno previsto tre diverse tipologie di comportamenti vietati: attendere durante l'orario di lavoro a occupazioni estranee al servizio; non rispettare i principi in tema di incompatibilità previsti dalla legge e dai regolamenti (ipotesi che qui rileva); espletare, durante il periodo di assenza per malattia, attività che possano ritardare il recupero psico- fisico.
In ogni caso, il rapporto di lavoro alle dipendenze di pubbliche amministrazioni è caratterizzato dall'obbligo di esclusività, che trova il suo fondamento costituzionale nell'articolo 98 della Costituzione con il quale il legislatore, nel prevedere che «i pubblici impiegati sono al servizio esclusivo della Nazione», ha voluto rafforzare il principio di imparzialità di cui all'articolo 97 della Costituzione, sottraendo il dipendente pubblico dai condizionamenti che potrebbero derivare dall'esercizio di altre attività. Su questo obbligo non ha inciso, e non poteva farlo, la contrattualizzazione del rapporto di impiego e la materia, sottratta all'intervento delle parti collettive, è rimasta disciplinata, innanzitutto, dagli articoli 60 e seguenti del Dpr 3/1957, in forza del richiamo articolo 53, comma 1, del Dlgs 165/2001.
L'instaurazione di un rapporto di lavoro intermittente, che lo stesso ricorrente riconosce essere documentalmente provato, è senz'altro riconducibile all'assunzione di impiego alle dipendenze di terzi e non può certo assumere alcun rilievo che le prestazioni, rese a titolo oneroso, non siano state di fatto retribuite per l'inadempimento del datore. La gratuità dell'incarico, che può eventualmente escludere la incompatibilità, è ravvisabile solo in presenza di prestazioni rese per una finalità di solidarietà in luogo di quella lucrativa, e non va confusa con la mancata riscossione da parte del dipendente delle somme allo stesso dovute in forza di pattuizioni contrattuali, sottoscritte in violazione dell'obbligo di esclusività. Nel caso di specie, poi, la Corte territoriale ha evidenziato che le risultanze istruttorie inducevano a ritenere che il dipendente pubblico avesse agito «non tanto come semplice collaboratore ma come vero e proprio gestore ed imprenditore, occultando alla formale titolare l'andamento degli affari e i conti dell'impresa».

La sentenza della Corte di cassazione n. 28797/2017

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