Personale

Sì della Cassazione al licenziamento di chi abusa dei permessi «104»

di Paola Rossi

Sì al licenziamento disciplinare del dipendente pubblico che abusa, illegittimamente usufruendo di assenze retribuite dal lavoro, dei permessi a lui riconosciuti in base alla legge 104. La Corte di cassazione ha così respinto - con l’ordinanza n. 8209/2018 depositata ieri - il ricorso di una dipendente di un’Azienda sanitaria locale.

L’inutile difesa
La lavoratrice - “infedele”, almeno secondo i giudici di merito - voleva far emergere la tenuità del fatto e la sproporzione dell’irrogazione della massima sanzione disciplinare subita e contro cui ricorreva inutilmente.
Ancora impugnando il licenziamento disciplinare in Cassazione, dopo aver avuto torto per due gradi di giudizio di merito, la dipendente pubblica voleva far emergere l’illegittima applicazione della sanzione più grave a fronte della singolarità dell’episodio e del proprio stato psicologico «precario» nel periodo dei fatti contestati. Inoltre, metteva all’indice la sentenza di merito per nullità, in quanto priva di una anche concisa esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione: affermava in particolare la ricorrente in Cassazione che i giudici di appello hanno sic et simpliciter affermato di applicare l’orientamento maggioritario in Cassazione sull’abuso dei diritti riconosciuti dalla legge 104/1992, ma se ne sarebbero discostati sul piano della continuità o meno della condotta, che in questa caso sarebbe stata al limite episodica. La lavoratrice, infatti, oltre a negare il singolo episodio che le è costato il licenziamento lamentava anche la non presa in considerazione dell’attività lavorativa pregressa su cui non emergevano comportamenti scorretti.

L’orientamento drastico
La Corte di cassazione in maniera breve boccia i rilievi espressi col ricorso, rispondendo che il giudice di appello avrebbe fatto legittimamente espresso richiamo all’orientamento dei giudici di legittimità in vicende di simile tenore. Infatti, precisa la Cassazione, che si tratta di principio di diritto che ha portata generale e non presuppone la reiterazione del comportamento. E che legittimamente il giudice di merito ha dato preminenza al fatto “acclarato” dell’abuso del diritto, contro le difese espresse dalla parte, non facendo venir meno l’elemento della gravità della condotta. Gravità che i giudici hanno fatto emergere in particolare dando prevalenza all’elemento soggettivo della condotta e non a quello quantitativo nel tempo. In effetti l’elemento soggettivo rilevante veniva individuato nella«perdurante ipotesi di dolo».

L’ordinanza della Corte di cassazione n. 8209/2018

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