Personale

Non concorre nell'abuso d'ufficio il funzionario che «perora» la propria causa con il collega

di Domenico Irollo

Non è configurabile nella mera raccomandazione o nella segnalazione una forma di concorso morale nel reato di abuso d'ufficio, in assenza di ulteriori comportamenti positivi o coattivi che abbiano indotto la Pa a un ingiusto vantaggio patrimoniale indebitamente reclamato. A chiarirlo la Corte di cassazione penale, sezione VI, con la sentenza n. 18077/2018.

Il caso
Sulla scorta di questo principio i giudici hanno annullato la misura cautelare della sospensione dalla funzioni, disposta dal Gip del Tribunale di Agrigento e confermata dal riesame di Palermo, nei confronti del direttore generale dell'Iacp di Agrigento indagato per concorso nel reato disciplinato dall'articolo 323 del codice penale con il responsabile dell'ufficio del personale. Il dirigente era accusato di aver vanificato la decisione del commissario straordinario dell’ente di ridurgli lo stipendio con una nota a sua firma nella quale sosteneva il proprio diritto a mantenere il trattamento economico più favorevole. Un araccomandazione cui si è conformato il capo del personale, non ottemperando alla decisione del commissario straordinario.
La Corte di legittimità ha invalidato la misura cautelare. I Giudici di Piazza Cavour hanno rilevato come il responsabile dell'ufficio del personale, soggetto attivo della presunta condotta abusiva, era libero di aderire o meno all'input del proprio superiore, secondo il suo personale apprezzamento. La nota incriminata, a firma del direttore generale, non è stata difatti ritenuta ordinatoria ma puramente accompagnatoria, e al contempo neppure strettamente correlata alle funzioni rivestita dallo stesso dirigente. Questa corrispondenza non era espressione dell'esercizio di un potere, in quanto con essa il dirigente non aveva impartito al capo del personale alcuna disposizione, ma si era limitato a prospettare la ricorrenza di una situazione a suo favore. L'atto, in definitiva, non era espressione di una attività d'ufficio, né tantomeno determinava alcun vincolo in capo al suo destinatario, chiamato a dare concreta applicazione alla previsione commissariale in merito al taglio dello stipendio del direttore generale, sicché il responsabile del personale era l'unico a dover eventualmente rispondere del reato.

La decisione
La pronuncia conferma, dunque, che il delitto disciplinato dall’articolo 323 del codice penale non si configura come un reato obbligatoriamente plurisoggettivo. Al contrario, l'illecito resta reato monosoggettivo, per la cui integrazione non è richiesta alcuna intesa tra l'agente e il beneficiario della condotta illecita. Solo ove venga fornita prova dell'intesa intercorsa con il pubblico funzionario o comunque della sussistenza di pressioni o sollecitazioni dirette a influenzarlo (escluse nella fattispecie), il beneficiario concorrerà nel reato. Senza contare che queste condotte oggi potrebbero essere riconducibili al reato di traffico di influenze illecite secondo l’articolo 346-bis del codice penale.
Il verdetto, inoltre, non smentisce il principio per cui tutti i pubblici ufficiali che in ragione delle rispettive funzioni (ad esempio, attraverso la formulazione di proposte o pareri) abbiano partecipato alla determinazione del contenuto dell'atto conclusivo di un procedimento amministrativo, possono essere chiamati a rispondere di abuso d'ufficio, anche se non hanno materialmente adottato l'atto conclusivo viziato. Non era però questo il caso, dal momento che nella fattispecie esaminata dalla Corte la condotta si collocava al di fuori dello svolgimento delle sue funzioni.

La sentenza della Corte di cassazione n. 18077/2018

Per saperne di piùRiproduzione riservata ©