Personale

Rivelazione di segreto d'ufficio e non truffa per chi «anticipa» la prova d'esame al candidato

di Marco Gennari

La rivelazione del contenuto di una prova d'esame da parte del presidente della commissione di concorso non si configura quale truffa ai danni dello Stato anche se ha permesso l'illecita assunzione di un candidato ma è un delitto contro la pubblica amministrazione. La Corte di cassazione penale con la sentenza n. 22973/2018, delinea i contorni del reato nel quale incorre il presidente della commissione che, con la complicità del direttore generale della società pubblica che ha indetto la procedura selettiva, fa sapere in anticipo a un candidato i contenuti della prova, permettendogli d'essere ingiustamente assunto a tempo indeterminato.

Il caso
Il tribunale di Genova, sezione del riesame, aveva confermato la misura cautelare degli arresti domiciliari disposta a carico del presidente di una commissione in relazione al concorso di reato per i delitti di rivelazione e utilizzazione di segreti d'ufficio e di truffa, previsti dal codice penale. L'interessato ha proposto ricorso per Cassazione ottenendo una decisione che annulla il provvedimento impugnato limitatamente al reato di truffa, con rinvio al tribunale per nuovo esame.

La rivelazione del segreto d'ufficio
Con riferimento al primo capo di imputazione, i giudici della Cassazione confermano la decisione del tribunale che non ha considerato il fine di utilità patrimoniale perseguito dal pubblico ufficiale, ma ha evidenziato come «la notizia riservata avesse in sé una connotazione economica per la sua diretta incidenza sull'esito della prova concorsuale e sull'assunzione a tempo indeterminato, con conseguente riconducibilità della fattispecie alla previsione normativa di cui al terzo comma dell'articolo 326 del codice penale».

La truffa ai danni dello Stato
La Suprema Corte si discosta, invece, dal giudizio del tribunale in ordine alla configurabilità del reato di truffa per il fatto che l'assunzione illegittima non è suscettibile di arrecare un danno al patrimonio della pubblica amministrazione.
Il collegio osserva che il reato di truffa presuppone «la prova di un danno immediato ed effettivo, di contenuto economico-patrimoniale, subito dall'amministrazione al momento e in conseguenza della costituzione del rapporto impiegatizio, non essendo, invece, rilevanti, ai fini della consumazione del reato, l'aver arrecato all'amministrazione un danno meramente virtuale (come quello relativo alle spese da sostenere per riparare l'errore e rettificare la graduatoria o per indire le nuove procedure di assunzione), ovvero di natura non immediatamente patrimoniale (come l'assunzione di persona sprovvista dei necessari requisiti professionali e all'alterazione della graduatoria del concorso)».

In conclusione
Nel caso di specie, la rivelazione del segreto d'ufficio ha consentito un'indebita assunzione, ma il posto di lavoro messo a concorso è stato comunque occupato dal candidato individuato, che ha poi percepito una retribuzione dall'ente a fronte di prestazioni lavorative comunque svolte.
Declinando lo stesso principio in un diverso ambito della Pa, la Cassazione ha affermato che «in tema di truffa ai danni dello Stato, nel caso di illegittimo affidamento diretto di un appalto pubblico, il danno per la Pa è ravvisabile esclusivamente ove risulti che i costi sostenuti per l'esecuzione del contratto siano stati maggiori rispetto a quelli che sarebbero derivati nel caso di aggiudicazione all'esito di gara pubblica, non integrando il requisito del danno patrimoniale né la mera illegittimità della procedura di affidamento, né il pregiudizio per i terzi controinteressati, né il costo connesso all'eventuale svolgimento di una nuova procedura di aggiudicazione» (Sezione VI, sentenza n. 41768/2017).
In definitiva, è il testo stesso dell'articolo 640 codice penale a prevedere che l'elemento costitutivo della truffa debba essere l'induzione in errore per «un ingiusto profitto con altrui danno», di modo che senza l'evidenza provata di un danno effettivo, la fattispecie criminosa non ricorre.

La sentenza della Corte di cassazione n. 22973/2018

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