Personale

Licenziamento disciplinare per il dipendente pubblico iscritto all’albo degli avvocati

di Andrea Alberto Moramarco

Il funzionario comunale che svolge contemporaneamente l'attività di avvocato versa in una situazione di incompatibilità, prevista dall'articolo 53 del Testo unico sul pubblico impiego, che giustifica il licenziamento disciplinare. La sanzione è legittima anche soltanto in presenza della mera iscrizione all'albo degli avvocati, da cui è lecito presumere lo svolgimento in concreto della professione forense. Lo si afferma nella sentenza n. 32156 della Sezione lavoro della Cassazione, depositata ieri.

Il caso
Protagonista della vicenda è un avvocato che nel settembre 2012 veniva assunto alle dipendenze del Comune di Pompei senza dichiarare la propria situazione di incompatibilità a svolgere l'incarico pubblico. Il legale, infatti, era rimasto iscritto all'albo degli avvocati e aveva in qualche occasione continuato a svolgere la professione forense difendendo in giudizio alcuni suoi clienti. L'ente locale si accorgeva però dell'anomalia e chiedeva chiarimenti al suo funzionario, il quale adduceva a sua difesa la cancellazione della partita Iva e la sua dichiarazione dei redditi, da cui si desumeva il mancato svolgimento dell'attività di avvocato. Dopo qualche mese, tuttavia, il Comune chiedeva al dipendente ulteriori chiarimenti e dalla risposta alla contestazione disciplinare fornita da quest'ultimo emergeva che lo stesso era di fatto ancora iscritto all'albo. Tanto bastava per l'ente datore di lavoro a presumere in concreto l'esercizio dell'attività professionale, sicché, sulla base degli articoli 53 del Testo unico sul pubblico impiego (Dlgs 165/2001) e 21 della nuova disciplina dell'ordinamento della professione forense (legge 267/2012), il Comune nel settembre 2015 disponeva il licenziamento disciplinare del dipendente.
A questo punto il funzionario impugnava il provvedimento dinanzi all'autorità giudiziaria chiedendo l'annullamento della massima sanzione disciplinare per la tardività dell'irrogazione del provvedimento rispetto alla contestazione iniziale, nonché per la mancata dimostrazione della effettiva attività forense da lui svolta. I giudici però, sia in primo che in secondo grado, hanno confermato il licenziamento per l'incompatibilità della funzione di pubblico dipendente con l'esercizio della professione forense.

La tempestività del provvedimento
La questione così è arrivata in Cassazione dove l'ex dipendente pubblico ha cercato di contestare il licenziamento sul piano formale e sostanziale. Il verdetto però non è cambiato. La Corte ha replicato alla presunta tardività del provvedimento spiegando che il Comune, nel caso di specie, ha potuto procedere al licenziamento solo in un secondo momento, ovvero dopo la precisa ricostruzione della situazione di fatto avvenuta a seguito dei chiarimenti chiesti al lavoratore, non essendo possibile «un arretramento cronologico del momento dell'acquisizione della notizia dell'infrazione». D'altra parte ben può la pubblica amministrazione «svolgere indagini pre-procedimentali per chiarire i termini della vicenda e valutare la consistenza disciplinare dei fatti emersi a carico del dipendente.

La valenza dell'incompatibilità
I giudici di legittimità hanno chiarito anche che la mera iscrizione all'albo è sufficiente a fornire la prova della incompatibilità, non essendo necessarie ulteriori indagini in merito all'effettivo svolgimento della libera professione. Difatti, l'articolo 53 del Testo unico sul pubblico impiego «ha sancito una vera e propria estensione a tutti i dipendenti pubblici, contrattualizzati e non» della disciplina delle incompatibilità, escludendo solo il personale docente, direttivo e ispettivo della scuola, il personale del servizio sanitario nazionale e i dipendenti con rapporto di lavoro a tempo parziale, per i quali sono previste speciali disposizioni. Pertanto, chiosa la Corte, a eccezione di quelle categorie, il generale principio della incompatibilità sancito per i dipendenti statali e degli enti pubblici economici si estende a tutti i pubblici dipendenti.

La sentenza della Corte di cassazione n. 32156/2018

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