Personale

Per la Cassazione gli incarichi a contratto sono lavoro subordinato

di Vincenzo Giannotti

Pur non essendo previsto in modo esplicito dalle disposizioni legislative, gli incarichi conferiti in base all'articolo 110, commi 1 e 2, del Tuel sono di natura subordinata, in quanto realizzano la copertura di posizioni dirigenziali o di responsabilità e comportano, quindi, l'inserimento nell'organizzazione dell'ente e la destinazione a un servizio che rientra nei fini istituzionali dell'ente pubblico. L'eventuale esercizio di questi incarichi con altro rapporto di pubblico impiego, per giunta in assenza della preventiva autorizzazione dell'ente, può giustificare il licenziamento per giusta causa del dipendente in considerazione del divieto dell'obbligo di esclusività. Sono le conclusioni cui è pervenuta la Corte di cassazione nella sentenza n. 32492/2018 che ha riformato le sentenze sia del Tribunale di primo grado sia della Corte d’appello.

Il fatto controverso
L'ente locale di appartenenza ha proceduto al licenziamento per giusta causa di un proprio dipendente che svolgeva attività presso altri due Comuni in base all'articolo 110 del Tuel, per violazione della normativa del cumulo di impieghi e per l'assenza della preventiva autorizzazione. Il Tribunale di primo grado e successivamente la Corte d’appello hanno giudicato la sanzione espulsiva illegittima, focalizzando la loro attenzione sul rapporto di natura parasubordinato e non subordinato dell'incarico a contratto, con conseguente obbligo di reintegrazione del dipendente estromesso. Il Comune ha, pertanto, proposto ricorso in Cassazione insistendo sulla natura subordinata del rapporto e, in ogni caso, per mancata preventiva autorizzazione allo svolgimento degli incarichi esterni.

Le indicazioni della Cassazione
Secondo i giudici di Piazza Cavour la Corte d’appello ha commesso due errori. Il primo per aver qualificato il rapporto di lavoro avente natura parasubordinata ricollegandolo al comma 6 dell'articolo 110 del Tuel. Il secondo riguarda la mancata analisi della preventiva autorizzazione dell'ente di appartenenza anche nel caso di rapporto non subordinato. Avuto riguardo agli incarichi a contratto, sebbene la norma non qualifichi espressamente di natura subordinata il rapporto instaurato dall'amministrazione con il dirigente o con il responsabile del servizio, non vi è dubbio che debba qualificarsi come subordinato. Infatti, a differenza dell'articolo 110, comma 6, del Tuel, secondo cui «per obiettivi determinati e con convenzioni a termine, il regolamento può prevedere collaborazioni esterne ad alto contenuto di professionalità», gli incarichi a contratto realizzano la copertura di posizioni dirigenziali o di responsabilità e comportano, quindi, l'inserimento nell'organizzazione dell'ente con relativa destinazione ad un servizio rientrante nei fini istituzionali dell'ente pubblico (tra le tante Cassazione n. 10551/2003; n. 20009/2005; n. 12749/2008; n. 1639/2012; n. 17101/2017). La riconducibilità all'impiego pubblico, sia pure temporaneo, si desume, oltre che dalla diversità dei termini utilizzati dai commi 1 e 6 (contratto a tempo determinato da un lato, convenzione dall'altro), anche dall'espresso richiamo della contrattazione collettiva nazionale e decentrata per il personale degli enti locali nonché dalla previsione della risoluzione del rapporto di impiego eventualmente in essere con altra amministrazione pubblica. In conclusione, la Corte d’appello ha errato nella corretta qualificazione del rapporto di lavoro con la conseguente mancata rilevazione del divieto del cumulo di impieghi previsto dall'articolo 65 del Dpr 3/1957.
Ha, inoltre, errato la Corte d’appello nel ritenere priva di conseguenze la mancata preventiva autorizzazione, in quanto espressamente richiesta dall'articolo 53 del Dlgs 165/2001, e quindi idonea di per sé a integrare la violazione della normativa in tema di incompatibilità e cumulo di impieghi.

La sentenza, pertanto, va annullata e rinviata alla Corte di appello, in diversa composizione, che dovrà attenersi ai principi di diritto enunciati.

La sentenza della Corte di cassazione n. 32492/2018

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