Personale

Il contratto di lavoro nullo cade anche senza licenziamento esplicito

di Vincenzo Giannotti

Sottoscritto il contratto di lavoro a tempo indeterminato con un vincitore di concorso o uno «stabilizzato», la Pa non ha alcun potere autoritativo di risolverlo in via unilaterale, tranne nei casi del licenziamento o delle dimissioni. Tuttavia, in presenza di un contratto di lavoro nullo, per esempio per mancanza dei presupposti per l’assunzione o dei requisiti dichiarati dal candidato, l’amministrazione può interrompere il rapporto di lavoro come rifiuto nel riconoscere efficacia giuridica per il futuro ad atti nulli e ai rapporti che sulla base di essi sono stati instaurati.
Queste le conclusioni della Corte di cassazione nella sentenza del 20 dicembre 2018 n. 33035.

La vicenda
Stabilizzato un dipendente che aveva maturato complessivamente tre anni di servizio a tempo determinato, in base alla legge 296/2006 e dell’articolo 3, comma 90, della legge 244/2007, il contratto poi veniva risolto non avendo egli maturato i tre anni di anzianità richiesta dalla normativa.
Secondo l’ex dipendente, ormai divenuto ricorrente, la Pa non avrebbe potuto recedere dal contratto in via unilaterale e, a tal fine, indicava i principi consolidati del giudice di legittimità secondo cui l'unico atto unilaterale della rescissione del contratto, da parte del datore di lavoro pubblico, è solo quello del licenziamento, cui si contrappone la possibilità di rescissione paritetica del lavoratore mediante dimissioni. Pertanto, in difetto di una specifica autorizzazione legislativa a incidere sulla materia dell'estinzione del rapporto di lavoro, all'autonomia delle parti (individuali o collettive) non è dato inserire clausole di durata del rapporto (fuori dei casi previsti dalla legge) e neppure condizioni risolutive in base all'articolo 1353 codice civile o condizioni risolutive espresse in base all'articolo 1456 codice civile (tra le tante Cassazione n. 27058/2013). Un principio di tipicità e tassatività delle cause di recesso dal contratto di lavoro.

Le diverse motivazioni del giudice del lavoro
Il tribunale di primo grado accoglieva le doglianze del dipendente, ma di avviso contrario era la Corte di appello, secondo cui la Pa ha operato in modo legittimo per aver annullato l'atto di costituzione del rapporto valutandone l'inidoneità a produrre qualsiasi effetto, atteso che il dipendente stabilizzato era privo del requisito di anzianità lavorativa contemplato da norma imperativa.
Il ricorso in Cassazione verteva sull’interpretazione dell'istituto della rescissione, atteso che quest'ultimo non può costituire causa di risoluzione del rapporto di lavoro quando sia stato validamente costituito. In ogni caso - per l’ex dipendente -l'esercizio dell'azione della Pa è avvenuto dopo il termine massimo di un anno, con la conseguente prescrizione di qualsiasi azione risolutiva.

La conferma della Cassazione
Secondo i giudici di legittimità le motivazioni del ricorrente non sono fondate. Infatti, correttamente la Corte territoriale ha evidenziato che l'assunzione è avvenuta contra legem, per non aver maturato il dipendente i tre anni richiesti dalla normativa nella stessa amministrazione.
Si sarebbe, pertanto, in presenza di un atto nullo, per violazione di norma imperativa, con la conseguenza che la costituzione del rapporto di lavoro a tempo indeterminato è avvenuta in assenza del requisito di anzianità in capo al lavoratore. Appare legittima, quindi, la decisione dell'ente di procedere alla risoluzione del contratto di lavoro. Il dipendente, in altri termini, non possedeva la capacità giuridica per poter divenire parte del rapporto di lavoro, per mancanza del requisito dell'anzianità di servizio richiesto dalla legge.
In conclusione, l'attività «dismissiva», impropriamente denominata «rescissione» dalla Corte di appello, altro non è che la «... formalizzazione di un rifiuto da parte dell'amministrazione di riconoscere efficacia giuridica per il futuro ad atti nulli e ai rapporti che sulla base di tali atti nulli sono stati instaurati».

La sentenza della Corte di cassazione n. 33035/2018

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