Personale

Sì al trasferimento nella sede più vicina al familiare da assistere

di Carmelo Battaglia e Domenico D'Agostino

Con la sentenza n. 6150/2019, la Corte di Cassazione civile, Sezione lavoro, ha confermato che la disciplina di cui all'art. 33, comma 5, della Legge n. 104/1992, sul diritto del dipendente, pubblico o privato, di scegliere, ove possibile, la sede di lavoro più vicina al familiare da assistere, è applicabile non solo all'inizio del rapporto di lavoro, mediante la scelta della sede ove verrà svolta l'attività, ma anche nel corso del rapporto, mediante domanda di trasferimento.
Con la sentenza n. 292/2014, la Corte d'appello di Milano, in riforma della sentenza di primo grado, aveva dichiarato legittimo il diritto di un dipendente di Poste Italiane di chiedere il trasferimento presso la sede più vicina al domicilio della sorella disabile e, richiamando la giurisprudenza di legittimità (Cass. n. 3896/2009; n. 28320/2013), aveva ritenuto il citato art. 33, comma 5, applicabile non solo nella fase genetica del rapporto, ma anche all'ipotesi di richiesta di trasferimento.
La Corte territoriale aveva sottolineato come, per effetto dell'articolo 24 della Legge n. 183/2010, non fossero più richiesti i requisiti di “continuità ed esclusività” dell'assistenza al familiare, previsti dal comma 5 dell'art. 33, così come novellato dagli artt. 19 e 20 della Legge n. 53/20000, e come, in base al testo vigente all'epoca della domanda di trasferimento, si dovesse avere riguardo al domicilio della persona da assistere, non del lavoratore.
Altresì, nel caso di specie, la Corte d'appello aveva ritenuto integrati sia il requisito soggettivo, cioè la condizione di handicap grave della sorella, sia il requisito oggettivo, ovvero la disponibilità di posti in uffici più vicini alla residenza del familiare da assistere. La Corte di Cassazione ha confermato l'applicabilità della disciplina di cui al citato comma 5 anche alla domanda di trasferimento presentata nel corso del rapporto di lavoro, affermando che la ratio della norma è quella di favorire l'assistenza al familiare handicappato ed è irrilevante, a tal fine, se tale esigenza sia insorta durante il rapporto di lavoro o sia risalente all'epoca dell'assunzione. Detta interpretazione si impone proprio in virtù delle modifiche introdotte dalla Legge n. 53/2000, che ha eliminato il requisito della convivenza tra il lavoratore ed il familiare disabile, e, successivamente, dall'art. 24 della Legge n. 183/2010, che, intervenendo sull'art. 20, comma 1, della Legge n. 53/2000, ha eliminato i requisiti della continuità ed esclusività dell'assistenza. Dal punto di vista letterale, secondo la Corte, il testo della disposizione, applicabile ratione temporis alla fattispecie, non contiene un espresso e specifico riferimento alla scelta della sede di lavoro e risulta, quindi, applicabile anche alla domanda di trasferimento; inoltre, non implica la preesistenza dell'assistenza in favore del familiare, in quanto è riconosciuto al lavoratore il diritto di scegliere la sede più vicina al domicilio della persona “da assistere”, non necessariamente “già assistita”. Con riferimento alla necessità di assistenza “permanente, continua e globale” associata alla condizione di handicap grave, richiesta dalla norma, i giudici hanno osservato è inerente al tipo di assistenza di cui ha bisogno la persona disabile, ma non necessariamente grava sul singolo familiare, anche in ragione della soppressione del requisito di esclusività dell'assistenza. L'interpretazione della Corte di merito non solo risulta coerente con la portata letterale della norma, ma anche con le esigenze di tutela, di rilievo costituzionale, connesse alla condizione di persona disabile: la previsione, infatti, rientra tra le agevolazioni e provvidenze riconosciute a chi si occupa di assistere un parente disabile, sulla base del presupposto che il ruolo della famiglia “resta fondamentale nella cura e nell'assistenza dei soggetti portatori di handicap” (Corte Cost. n. 231/2016; n. 203/2013; n. 19/2009; n. 158/2007 e n. 233/2005). In tale contesto normativo, la previsione di cui al comma 5 dell'art. 33 rappresenta uno strumento indiretto di tutela per le persone disabili, attraverso l'agevolazione del familiare lavoratore nella scelta della sede di lavoro, affinché essa sia il più possibile compatibile con la funzione di assistenza. Una eventuale limitazione nella scelta della sede alla sola fase genetica del rapporto di lavoro determinerebbe una compressione ingiustificata e irrazionale di interessi costituzionalmente rilevanti. L'interpretazione della Corte d'appello è la sola coerente con la funzione solidaristica della disciplina e con la garanzia di beni fondamentali, tutelati sia dalla Costituzione, sia dalla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità. In ultimo, gli ermellini hanno precisato che il bilanciamento tra questi diritti e quelli del datore di lavoro, già statuiti nella giurisprudenza di legittimità (Cass. n. 24015/2017; n. 25379/2016; n. 9201/2012), devono valorizzare le esigenze di assistenza e di cura del familiare disabile, incontrando quale unico limite le “esigenze tecniche, organizzative e produttive”, comprovate dal datore di lavoro, che risultino non suscettibili di essere soddisfatte diversamente.

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