Personale

Orario di lavoro, non si possono ignorare le esigenze dei genitori - Il caso dell'ispettorato del lavoro toscano

di Andrea Alberto Moramarco

Le regole in tema di organizzazione dell'orario di lavoro devono tener conto delle esigenze personali e familiari dei lavoratori-genitori, i quali devono poter contare su una disciplina flessibile che consenta loro di far fronte alle necessità legate, ad esempio, alla frequentazione di asili nido e scuole materna e primaria dei propri figli. Ad affermarlo è il Tribunale del lavoro di Firenze che ha ordinato all'ispettorato del lavoro del capoluogo toscano di modificare la propria disciplina interna sui ritardi poiché ritenuta discriminatoria.

Il caso
La vicenda, per certi versi paradossale, riguarda la mancata applicazione, da parte del dell'ispettorato territoriale del Lavoro di Firenze, degli strumenti di conciliazione tra vita lavorativa e familiare, previsti dal contratto collettivo nazionale per la Funzione pubblica. In particolare, nel ricorso presentato, in base al codice delle pari opportunità tra uomo e donna (Dlgs 198/2006), dalla Consigliera di parità della Regione Toscana (si veda il Quotidiano degli enti locali e della Pa del 3 luglio) veniva denunciata una vera e propria discriminazione collettiva messa in atto a danno dei dipendenti dell'ispettorato. Al centro della contestazione, nello specifico, vi era la disciplina contenuta in due ordini di servizio sui ritardi, peggiorativa rispetto a quella del contratto nazionale e per certi versi contraria a questa, nonché la totale assenza di regole sulla «flessibilità ulteriore» in favore dei lavoratori-genitori.

La discriminazione a danno dei lavoratori- genitori
Il Tribunale del lavoro ha accolto il ricorso volto all'accertamento di una discriminazione indiretta di carattere collettivo, definendo la controversia di «assoluta novità» e di «oggettiva complessità». Per il giudice toscano occorre partire dalla nozione di discriminazione indiretta, definita dall'articolo 25 del Codice delle pari opportunità tra uomo e donna come un qualsiasi atto o comportamento tale da mettere le persone portatrici dei fattori di rischio tipici, come appunto i lavoratori-genitori, in una «situazione di particolare svantaggio», salvo ciò non sia giustificato dalla presenza di una finalità legittima e di mezzi appropriati per raggiungerla. Ne consegue che la discriminazione indiretta «alberga, non nel trattamento – che è uguale -, ma negli effetti». Ciò che rileva, cioè, è l'effetto del trattamento discriminatorio, ovvero la conseguenza sul piano oggettivo della condotta, il «rischio di mettere in posizione di svantaggio persone» portatrici di un determinato fattore idi protezione.
Ciò considerato, secondo il giudice, le disposizioni incriminate realizzano nel loro complesso una potenziale discriminazione a danno dei genitori-lavoratori, ovvero quei soggetti portatori del fattore di rischio costituito dalla maternità o paternità, senza che sussista una finalità giustificatrice. È notorio, chiosa il Tribunale, «che i genitori (e, a maggior ragione, le lavoratrici-madri), specialmente se con figli in età da scuola dell'infanzia, materna o primaria, si trovino frequentemente a dover far fronte a impellenti e imprevedibili esigenze connesse all'accudimento della prole, le quali possono anche comportare l'improvvisa necessità di ritardare l'ingresso al lavoro o anticiparne l'uscita». Di conseguenza, conclude il giudice, le regole sull'organizzazione dell'orario di lavoro che rendono difficoltosa la conciliazione di queste esigenze con quelle lavorative non possono che risultare discriminatorie, anche alla luce della mancata dimostrazione da parte dell'ispettorato della specifica finalità sottesa a quella rigida disciplina.

La sentenza del Tribunale di Firenze

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