Appalti

Riforma Madia, illegittime più di 8mila partecipazioni in aziende

Più di un quarto delle partecipazioni pubbliche è “fuorilegge”. Perché gli enti hanno deciso di mantenerle nonostante la riforma Madia, che ha imposto alle Pa di abbandonare le partecipate troppo piccole, quelle con più amministratori che dipendenti e quelle attive in settori diversi dai servizi generali o strumentali o dalla realizzazione di opere pubbliche. La conseguenza, per le razionalizzazioni inattuate, è che «il socio pubblico non può esercitare i diritti sociali», come recita il Testo unico delle partecipate: ogni atto, insomma, sarebbe illegittimo, perché l’unico potere rimasto è quello di «alienare la partecipazione» se vuole evitarne la liquidazione. A certificare il problema è il consuntivo pubblicato ieri dal Tesoro sui risultati della «razionalizzazione straordinaria» delle partecipazioni pubbliche imposta dalla riforma del 2016. Qualche cifra, prima di tutto.

All’appuntamento con il taglia-società la Pa si è presentata con 32.427 partecipazioni in portafoglio. Il 55,9% di queste, cioè 18.124, sono risultate fuori dai confini ristretti tracciati dalla riforma Madia per il “socialismo (non solo) municipale”. La «razionalizzazione» vera e propria, che si è potuta tradurre nella vendita della quota, nella liquidazione oppure in fusioni e aggregazioni, ha però riguardato solo 6.700 partecipazioni, cioè il 37% di quelle illegittime. Nel 46% dei casi (quindi per più di 8.300 quote), invece, le amministrazioni proprietarie hanno dichiarato l’intenzione di tenere duro, senza cedere, vendere, fondere o liquidare nulla. Restano poi poco più di 3mila partecipazioni “al buio”, rispetto alle quali gli enti proprietari si sono limitati a non dire nulla.

Che cosa dicono questi numeri? Prima di tutto, misurano la resistenza a tutto campo incontrata dalla riforma Madia negli enti pubblici chiamati a tagliare i loro rami societari. Una resistenza che la Struttura di monitoraggio istituita al Tesoro ha provato a vincere con un confronto continuo con gli enti anche con «atti di orientamento» che hanno provato a evitare letture un po’ troppo formalistiche (e a volte elusive) delle regole. Ma dai dati pubblicati dal Mef emergono anche le difficoltà incontrate dagli enti che pure hanno voluto attuare la riforma: 3.117 partecipazioni sono state dichiarate «cedibili» dai proprietari, ma solo 572 sono state davvero vendute perché si è trovato l’acquirente. Perché in molti casi le piccole quote di minoranza, oppure quelle in aziende prive di valore reale, non hanno incontrato alcun interesse sul mercato.

Di qui i modesti risultati raggiunti finora: gli enti che sono riusciti a vendere le quote hanno incassato in tutto 431 milioni di euro, e la riforma ha di fatto finito per favorire solo la morte naturale delle 1.654 mini-società, spesso di dimensioni modestissime o addirittura scatole vuote, che secondo i censimenti Anci-Ifel sono scomparse fra 2016 e 2018.

Ma la partita non si chiude qui. Perché oltre a chiedere la vendita o la chiusura delle partecipate fuori regola, il Testo unico approvato nel 2016 ha previsto una serie di sanzioni per chi non si adegua. Sanzioni potenzialmente forti, che rischiano di aprire un’infinità di battaglie giudiziarie. Chi mantiene partecipazioni illegittime, spiega l’articolo 24, comma 5 del Dlgs 175/2016, perde tutti i poteri dell’azionista tranne quello di alienare la quota. Altrimenti scatta il diritto a ricevere il valore di recesso determinato in base al Codice civile (articoli 2437-ter e quater). Attenzione, però: il Mef fotografa la situazione all’ottobre 2018, quando sono scaduti i termini per attuare la razionalizzazione straordinaria. Ma un salvagente ampio è stato lanciato dall’ultima manovra (comma 723 della legge 145/2018), che ha rinviato al 2021 l’obbligo di disfarsi delle società “illegittime” che però fossero mediamente in utile negli ultimi tre anni. E più di due terzi delle partecipate chiudono i bilanci in nero.

L’inerzia delle amministrazioni deve poi fare i conti con il fatto che dopo la razionalizzazione straordinaria arriva quella ordinaria, da realizzare ogni anno. E in questo caso, negli enti locali, il mantenimento delle quote da alienare porta a una sanzione fino a 500mila euro che andrà decisa dalle Corti dei conti regionali.

Il rapporto del Tesoro

Per saperne di piùRiproduzione riservata ©