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Decreti partecipate/2 - Per l’obbligo di addio alla carica basterà il rinvio a giudizio

Il regolamento sui requisiti di onorabilità, professionalità e autonomia degli organi delle società a controllo pubblico preparato dal ministero dell’Economia rappresenta la seconda gamba di un modello che abbina a compensi equi i necessari requisiti professionali ed etici che un membro di consiglio di amministratore o di collegio sindacale deve avere, contribuendo ad assicurare la conseguente qualità della azione amministrativa.

Il decreto però, prendendo le mosse dalle disposizioni anticorruzione e francamente dimentico dello stato di diritto, riesce a essere sotto certi aspetti perfino più giacobino del «decreto Severino» (Dlgs 39/2013).

Per prima cosa distingue i soggetti in carica da quelli da nominare, adottando per i secondi criteri di selezione più rigorosi.

Nel primo caso vengono considerati privi dei requisiti di onorabilità, e quindi decadono, tutti coloro che sono stati condannati, anche con sentenza non definitiva, per il mancato rispetto di norme che disciplinano l’attività bancaria e finanziaria, per reati fallimentari, contro la pubblica amministrazione, contro il patrimonio e pure di natura tributaria. Ancora, decadono tutti i condannati con sentenza definitiva ad oltre due anni di reclusione e anche chi è stato condannato per danno erariale doloso.

Per essere ineleggibili, invece, basta che sia disposto il decreto che dispone il giudizio per i reati appena citati, e si resta in un regime di inconferibilità fin quando non ci sia una sentenza di proscioglimento, anche non definitiva. Ma è opportuno ricordare che possono rendersi necessari anni, a un innocente, per dimostrarsi tale.

Ancora, il decreto prende in esame quelli che definisce «requisiti di autonomia», anche qui in maniera estremamente punitiva per i potenziali amministratori e sindaci.

Viene vietato in assoluto, ad esempio, a un componente di giunta o consiglio regionale, provinciale e di enti locali con oltre 15mila abitanti di essere nominati componenti di organi amministrativi e di controllo. E questo non avviene, come nel caso del decreto anticorruzione (Dlgs 39/2013), solo nell’ambito del territorio regionale e limitatamente agli amministratori con deleghe di gestione diretta, ma per tutti i membri. Oltretutto si interviene in una materia già ampiamente regolata, e in maniera molto difforme, dalla disciplina esistente, che andava semmai attenuata e certo non resa più rigida.

Ancora, si vieta a chi sia stato membro del collegio sindacale di divenire amministratore della stessa società o di una società del gruppo nel corso del mandato successivo, così come non potrà essere nominato sindaco l’ex consigliere di amministrazione.

A fronte di tanta severità la richiesta di requisiti di professionalità è invece assai più contenuta. Ci si limita a richiedere un’esperienza complessiva di almeno un triennio, in materie amministrative, legali o di settore. Per l’amministratore delegato e per i presidenti degli organi servono invece cinque anni. In sostanza non viene richiesto un curriculum particolarmente pesante per chi si troverà a dirigere un’azienda, anche se di dimensioni elevate e con migliaia di dipendenti.

Non sembra, insomma, che la professionalità sia in cima ai pensieri dei redattori del decreto. Infatti, ad amministrare una società potrà andare quasi chiunque: il merito consiste nel non averne esperienza, e nel non essere mai incappati in un’indagine penale.

In sostanza la bozza di decreto va ben oltre al compito affidatogli dall’articolo 11, comma 1 del Dlgs 175/2016, ha forti rischi di incostituzionalità ed è figlia di un giustizialismo estremo, che introduce un’idea di presunzione di colpevolezza francamente deprecabile.

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