Appalti

Partecipate, basta la maggioranza delle quote a far scattare il «controllo pubblico»

Per definire «a controllo pubblico» una società è sufficiente che la maggioranza delle quote sia in mano a uno o più enti pubblici.

La Corte dei conti a sezioni riunite in sede di controllo, nella delibera 11/2019, scolpisce questo principio che prova a chiudere un vivacissimo dibattito interpretativo sul tema. Perché essere «a controllo pubblico» per la riforma Madia (decreto legislativo 175/2016) significa dover sottostare a una serie di obblighi, limitare a tre o cinque membri i posti in cda, applicare il tetto ai compensi (quelli in cinque fasce sono scritti nel decreto Mef in corso di approvazione anticipato sul Quotidiano degli enti locali e della Pa del 22 maggio), applicare le regole anti-corruzione e quelle sulla prevenzione dei rischi di crisi pensate per le aziende pubbliche. Ovvio che con queste premesse molte amministrazioni abbiano chiesto alle sezioni regionali della Corte e al ministero dell’Economia di definire quando si verifica il controllo pubblico. E ora arriva la risposta dei magistrati contabili. Che a molti non piacerà perché offre l’interpretazione più ampia, e allarga la platea delle società interessate da queste regole.

Per le sezioni riunite «possono essere qualificate come società a controllo pubblico quelle in cui “una o più” amministrazioni dispongono della maggioranza dei voti esercitabili in assembla ordinaria (oppure di voti o rapporti contrattuali sufficienti a configurare un’influenza dominante)». Il riferimento è all’articolo 2359 del Codice civile, richiamato dalla riforma Madia (articolo 2 del Testo unico). Questo principio, aggiunge la Corte, può essere rivisto quando nonostante la maggioranza pubblica delle quote siano i soci privati ad avere «un’influenza dominante», che però va «provata» sulla base di «patti parasociali o specifiche clausole statutarie o contrattuali».

La portata della decisione è chiara se la si confronta con quella scritta in un’altra delibera a sezioni riunite, la 16/2019 del 22 maggio, che però è stata assunta in sede giurisdizionale e quindi si riferisce a un caso specifico. In quella sede, i magistrati avevano detto che la maggioranza delle quote non basta a definire il controllo pubblico, che va verificato in base allo statuto o ai patti parasociali. Le sezioni riunite di controllo dicono il contrario invertendo l’onere della prova: statuto e patti possono escludere il controllo pubblico indicato dalle quote.

Ancora diverse le istruzioni del Mef. Nel primo atto di orientamento della Struttura di controllo sulla riforma delle partecipate (15 gennaio 2018), Via XX Settembre aveva giudicato non decisiva la titolarità delle quote, sulla base del presupposto che il controllo pubblico si concretizzi con statuti e patti o anche con «fatti concludenti» non formalizzati. Una lettura data a scopo anti-elusivo, per bloccare la tentazione di dribblare la riforma Madia tramite la mancata formalizzazione del controllo. Ma la Corte dei conti ora va oltre.

La delibera della Corte dei conti a sezioni riunite n. 11/2019

Per saperne di piùRiproduzione riservata ©