Appalti

Partecipate, al «controllo pubblico» serve una definizione formale

di Gianni Lemmetti e Marco Susanna

Con la delibera n. 11/2019, le Sezioni riunite in sede di controllo, sollecitate dalla Corte dei conti Umbria n. 57/2019, affermano che per qualificare una società a «controllo pubblico» sia sufficiente che «una o più amministrazioni dispong[a]no della maggioranza dei voti esercitabili in assembla ordinaria (oppure di voti o rapporti contrattuali sufficienti a configurare un'influenza dominante)». Le conseguenze sono diverse e si propongono alcune osservazioni.

La Corte, evidentemente, cosciente dell'imperatività della definizione dell'articolo 2359 del codice civile, ha accolto il principio contenuto per cui il 50% più uno dei voti esercitabili in assemblea ordinaria non permette di sottrarsi, per presunzione assoluta, alla qualifica di controllante. L'organo deliberante fonda, però, il proprio agire su una ulteriore presunzione che desta qualche perplessità. Si tratta, a ben vedere, di una ulteriore presunzione legata all'attribuzione di un carattere di "unitarietà" a una pluralità di amministrazioni socie della stessa società. Conclusione che viene ricollegata a una "corretta" valorizzazione della lettera m) dell'articolo 2 del testo unico delle partecipate.

Soffermandoci su questo ultimo aspetto, in una visone di insieme, quanto deliberato presenterebbe un effetto dirompente laddove vengono considerate società a controllo pubblico tutte quelle società partecipate a maggioranza (o totalitarie) da una o più Pa senza verificare né la sussistenza di una qualche forma di «controllo congiunto» né la modalità con cui quella, o quelle, Pa eserciti concretamente quell'influenza dominate. Perplessità confermata, a parere di chi scrive, ponendo a confronto da un lato le conclusioni cui pervengono le Sazioni riunite quando affermano che, ai fini della verifica della fattispecie di società a controllo pubblico, sia sufficiente che «una o più amministrazioni pubbliche dispongano, in assemblea ordinaria, dei voti previsti dall'art. 2359 c.c.» e, dall'altro, la precedente decisione in sede giurisdizionale della sussistenza dell'influenza dominante "solo" nella particolare ipotesi in cui uno o più soci privati partecipino alla compagine societaria. In altri termini, il dubbio è rappresentato dal fatto che, da un lato, la sola maggioranza dei voti esercitabili in assemblea ordinaria da parte delle pubbliche amministrazioni configurerebbe il "controllo", dall'altro, la stessa fattispecie, deve essere oggetto di indagine, attraverso la documentazione versata in atti, al fine di verificare l'eventuale esercizio di quell'influenza dominante da parte del privato.

Ed allora il principio dettato dalle Sezioni riunite sembra potersi ricomporre in questo modo. Da un lato, in presenza di società partecipate interamente da Pa, la società è da intendersi a controllo pubblico per presunzione assoluta, seppur con le perplessità sopra evidenziate dove non viene resa necessaria alcuna verifica delle modalità con cui le pubbliche amministrazioni esercitano quell'influenza dominante. Dall'altro, se la partecipazione alla società vede uno o più privati, nonostante la «detenzione della maggioranza delle quote societarie da parte di uno o più enti pubblici» occorrerà procedere a effettuare una compiuta attività di verifica della documentazione versata in atti al fine di evidenziare la riconducibilità (privata o pubblica) della sussistenza di un influenza dominante, chiaramente, nel solco della precedente sentenza (Sezioni riunite in sede giurisdizionale n. 16/2019).

Ciò che appare chiaro, confermando quanto già scritto su queste pagine (sul Quotidiano degli enti locali e della Pa del 21 giugno), è l'indispensabile necessarietà di "formalizzazione", laddove le Sezioni riunite ribadiscono l'obbligo in capo agli enti di adottare «misure e strumenti coordinati di controllo (mediante stipula di apposti patti parasociali e/o modificando clausole statutarie) atti ad esercitare un'influenza dominante sulla società». Da questa conferma, forse, è possibile trarre anche l'ulteriore considerazione per cui un'ipotesi di controllo non possa maturare in ambiti di comportamenti concludenti ovvero accordi taciti.

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