Appalti

Controllo pubblico, gli enti soci hanno il dovere di verifica

di Ciro D'Aries

Le recenti pronunce in tema di società «in controllo pubblico» stanno provocando sensibili disorientamenti negli operatori e nelle amministrazioni pubbliche, costrigendo queste ultime a verificare da vicino e dettagliatamente se la partecipazione alle diverse società, sopravvissute ai vari piani di razionalizzazione, sia da ricondurre alla qualifica di controllo pubblico ovvero alla mera partecipazione pubblica. Il non affrontare adeguatamente questi aspetti può portare a conseguenze inimmaginabili.
Innanzitutto, è doveroso ancorarci alle norme che definiscono il concetto di controllo pubblico, evitando di far dire alla legge quello che – nel bene o nel male – la norma non dice, ed è opportuno distinguere tre fattispecie di "potenziale" controllo pubblico in relazione ad altrettante situazioni societarie: società miste, società in house e altre società a maggioranza pubblica. Se le prime due fattispecie risultano di più facile inquadramento sia legislativo – civilistico e amministrativo – sia giurisprudenziale, per l'ultima la situazione è più delicata, anche in relazione alla possibilità di detenzione delle stesse partecipazioni.

Società miste
L'articolo 17 del testo unico disciplina la società mista pubblico-privata, facendo un esplicito rinvio ai rapporti tra i due soggetti che devono essere regolati nell'ambito dello statuto e degli eventuali accordi parasociali, entrambi da allegare al bando di gara per la scelta del socio privato. Al di là del caso scolastico di un ente pubblico e di un privato che compongono la compagine sociale, vi possono essere situazioni in cui ci siano più amministrazioni pubbliche e un socio privato; se nel primo caso è facile verificare se il controllo è posto o meno in capo al soggetto pubblico, nel secondo caso per esserci controllo si dovrà fare riferimento a quanto stabilito dallo statuto e nei patti parasociali, a condizione, però, che sia richiesto il consenso unanime di tutte le parti che condividono il controllo, laddove nessuno dei soci pubblici abbia una maggioranza, per far sì che la società venga inquadrata come società a «controllo pubblico». E ciò in ossequio a quanto definito dalle lettere b) ed m) del comma 1 dell'articolo 2 del testo unico.

Società in house providing
L'articolo 16 del testo unico disciplina le società in house providing che, per aspetti ontologici, non possono che essere a «controllo pubblico», in quanto si richiede – come precisato anche dalla definizione di questo controllo dalla lettera c) del comma 1 dell'articolo 2 del Tusp – che l'amministrazione socia sia in grado di esercitare un'influenza determinante sia sugli obiettivi strategici sia sulle decisioni significative della società controllata. Tuttavia, nel caso di più amministrazioni pubbliche socie, appare necessario e doveroso verificare:
• se le modalità del controllo analogo effettivamente rispecchino quello che i singoli enti esercitano (o meglio dovrebbero) esercitare sui propri servizi gestiti in economia, a partire dalla previsione nel Dup degli obiettivi strategici per terminare con la produzione di report periodici di controllo dell'andamento dei risultati e del raggiungimento degli obiettivi assegnati, pena – anche – la violazione delle regole comunitarie in termini di affidamento dei servizi affidati alla società «apparentemente» in house;
• laddove nessuna amministrazione raggiungesse il quorum per il controllo di cui all'articolo 2359 del codice civile, e anche lo statuto non esprimesse nulla a riguardo, la necessità di ricorrere alla stipula di patti parasociali per assicurare «il consenso unanime» di tutte i soci che condividono il controllo, affinchè possa esserci il controllo analogo congiunto – e quindi preservare e salvaguardare anche l'affidamento in house del/i servizio/i affidati.

Società a maggioranza o a totale partecipazione pubblica ma non in house
L'articolo 2 del testo unico, alla lettera b) del comma 1, dà una definizione di controllo (pubblico) molto asciutta e definita: «la situazione descritta nell'articolo 2359 c.c.» per proseguire – in termini di diritto societario-amministrativo: « Il controllo può sussistere anche quando, in applicazione di norme di legge o statutarie o di patti parasociali, per le decisioni finanziarie e gestionali strategiche relative all'attività sociale è richiesto il consenso unanime di tutte le parti che condividono il controllo».
Pertanto, da un punto di vista strettamente letterale, ipotizzando una società con tanti soci pubblici ciascuno dei quali nessuno possieda la maggioranza del capitale sociale, la situazione di controllo pubblico si avrà solo nei casi sia richiesto il consenso unanime in base alle norme di legge o statutarie ovvero ai patti parasociali.
In mancanza, non si avrebbe una società a controllo pubblico e si porrebbe il delicato problema di possibilità di mantenimento della partecipazione in merito alle finalità generali della legge Madia. Uno sforzo di metter mano a patti parasociali da parte degli enti soci può apparire doveroso per la salvaguardia delle partecipazioni che devono comunque soggiacere alla stretta necessità di perseguimento delle finalità istituzionali dell'ente.

Le eventuali modifiche alla Legge Madia
Se si vuole legislativamente estendere l'applicazione della Legge Madia alle società a maggioranza pubblica, a prescindere dal concetto di "controllo", così come ermeneuticamente si sta cercando di far rientrare un po' a tutti i costi per non svilire la legge stessa, occorrerebbe metter mano al testo unico prevedendo, ad esempio, un comma specifico in questo senso, oppure modificando tutti gli articoli e i vari commi degli stessi che fanno riferimento alle società a controllo pubblico. Basterebbe cambiare in «società a maggioranza pubblica», ad esempio, tutti gli articoli «più delicati» che riguardano l'organizzazione e la gestione delle società - articolo 6 – gli organi amministrativi - articolo 11 - e l'articolo 19 in tema di gestione del personale. Sarebbe la via più lineare per abbracciare quelle società che altrimenti potrebbero restare fuori dalla Legge Madia, con un probabile fiorire di ricorsi.
A questo punto, più che alla Corte dei conti lo sforzo di far rientrare le società nell'ambito della Legge Madia tutte quelle situazioni di incertezza, agli enti locali soci la responsabilità di definire preventivamente – anche in vista del prossimo piano di razionalizzazione ordinaria - l'esigenza di un corretto inquadramento di ciascuna partecipazione e gli adempimenti conseguenti necessari per la coerenza del tutto, pena contestazioni della Corte in fase di controllo. I patti parasociali, nel silenzio dello statuto, sembrano doverosi per quegli enti che decidono di mantenere una partecipazione in una società a «maggioranza pubblica», pena l'incoerenza tra la stretta necessità della stessa e la non applicabilità della Legge Madia.

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