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Dalla Cassazione stop definitivo al panino da casa nelle mense scolastiche

Non esiste un diritto soggettivo all'autorefezione individuale nell'orario della mensa e nei locali scolastici. Gli alunni perciò non possono consumare a scuola il cibo portato da casa durante la pausa pranzo. Questa è la conclusione cui sono giunte le Sezioni unite della Cassazione con la sentenza n. 20504, depositata ieri, che ha posto la parola fine al cosiddetto caso del «Panino a scuola». Per i giudici di legittimità i genitori degli studenti non possono, dunque, pretendere che le scuole si organizzino per far consumare ai propri figli un pasto diverso da quello offerto dalla mensa scolastica, ma ben possono influire sulle scelte riguardanti le modalità di gestione del servizio mensa, compresi i cibi offerti, partecipando al relativo procedimento amministrativo.

Le tappe della vicenda
La questione sorge nel novembre 2014 quando un cospicuo numero di genitori di alunni di scuole elementari e medie di Torino decideva di rivolgersi all'autorità giudiziaria, a fronte del divieto imposto ai loro figli di consumare cibo portato da casa all'interno delle aule mensa delle scuole durante la pausa pranzo. L'Amministrazione scolastica e il Comune di Torino negavano tale facoltà sostenendo l'impossibilità per gli alunni di usufruire del servizio mensa scolastico con modalità diverse da quelle della refezione scolastica, ben potendo i genitori optare per il modulo del "tempo breve", ovvero far uscire i figli da scuola durante l'ora di pranzo e riaccompagnarli per le attività pomeridiane.
Dopo il primo giudizio di merito in linea con la tesi di Miur e Comune di Torino, in appello i giudici accoglievano la tesi dei genitori, ritenendo sussistente un dovere per le scuole di «consentire indiscriminatamente agli alunni di consumare il pasto domestico presso la mensa scolastica», adottando le apposite misure organizzative necessarie. Ciò in quanto la nozione di istruzione «non coincide con la sola attività di insegnamento, ma comprende anche il momento della formazione», che si realizza mediante non solo attività strettamente didattiche, rientrando cioè il "tempo mensa" nel "tempo scuola".
Di qui la palla passava ai giudici della Cassazione - che rimettevano subito la questione alle Sezioni unite (si veda il Quotidiano degli enti locali e della Pa del 12 marzo) - a cui ministero e Comune chiedevano di riconsiderare le nozioni di "tempo mensa" e "tempo scuola" e di prendere in considerazione gli aspetti organizzativi igienico-sanitario ed economici della questione, mentre i genitori insistevano sui principi costituzionali in materia di istruzione e autodeterminazione individuale in relazione alle scelte alimentari. Nel frattempo, il Consiglio di Stato in analoga vicenda relativa al Comune di Benevento (si veda il Quotidiano del 10 settembre 2018) si era espresso in termini favorevoli alla tesi dei genitori, bocciando il regolamento comunale che impediva il consumo di cibo portato da casa nei locali scolastici.

Il tempo mensa e il tempo scuola
Le Sezioni unite con una lunga e ben articolata sentenza optano, però, per la tesi dell'Amministrazione scolastica e comunale soffermandosi sulle due principali questioni dell'intera vicenda: le nozioni di «tempo mensa» e «tempo scuola» e l'invocazione di un diritto soggettivo all'autorefezione individuale. Quanto alla prima questione, per la Suprema corte il tempo mensa è indiscutibilmente compreso nel tempo scuola, in quanto «esso condivide le finalità educative proprie del progetto formativo scolastico di cui esso è parte», oltre alla finalità di socializzazione che «è tipica della consumazione del pasto "insieme"». In quest'ottica, secondo i giudici di legittimità solo condividendo i cibi forniti dalla scuola si perseguono tali finalità, non potendosi considerare il pasto «un momento di incontro occasionale di consumatori di cibo». D'altra parte, sostiene il Collegio, «non è agevole comprendere come il pasto solitario degli alunni con cibo proprio, in locali destinati nella scuola, possa realizzare gli obiettivi di socializzazione e condivisione», che ineriscono all'invocato diritto di usufruire del "tempo scuola".

L'autorefezione scolastica non è un diritto so ggettivo
La stessa logica porta le Sezioni unite a escludere, in generale, l'esistenza di un diritto soggettivo perfetto e incondizionato all'autorefezione durante l'orario della mensa. Questa conclusione non sarebbe in contrasto né con il principio di gratuità dell'istruzione, né con il diritto allo studio, in quanto il servizio mensa è erogato nei limiti delle effettive disponibilità finanziarie ed è correlato alla disponibilità finanziaria degli studenti.
Inoltre, l'invocato diritto all'autorefezione quale espressione dell'autodeterminazione individuale, o del diritto dei genitori di educare i propri figli in campo alimentare, non è un diritto incomprimibile, ma va bilanciato con le esigenze delle istituzioni scolastiche, le quali organizzano il servizio mensa proprio in favore degli alunni che hanno optato per il tempo pieno e prolungato, accettando «l'offerta formativa comprendente la mensa». Le famiglie cioè, scegliendo il tempo pieno, esercitano una «libertà di scelta educativa», dalla quale scaturisce il loro «diritto di partecipazione al procedimento amministrativo per influire sulle modalità di gestione del servizio pubblico di mensa (ai fini dell'individuazione dell'impresa che lo gestisce e dei cibi offerti), ma non il diritto sostanziale di performarlo secondo le proprie esigenze individuali».
In sostanza, chiosa il Collegio, consentire agli alunni che intendano partecipare alle attività pomeridiane di pranzare con cibo proprio nei locali scolastici, sia locali mensa che altri, implica attribuire alle famiglie un diritto privo di una base normativa. Ciò che le famiglie possono fare, invece, è partecipare «con i consueti strumenti a tutela della legittimità dell'azione amministrativa» al procedimento amministrativo, «al fine di influire sulle scelte riguardanti le modalità di gestione del servizio mensa, rimesse all'autonomia organizzativa delle istituzioni scolastiche».

La sentenza delle Sezioni unite della Cassazione n. 20504/2019

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