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Partecipate, al controllo pubblico non basta la maggioranza

Le Sezioni riunite della Corte dei conti in sede giurisdizionale con la sentenza n. 25/2019 ribadiscono i concetti della sentenza 16/2019 sui presupposti per l’attribuzione dello status di società a controllo pubblico ex Dlgs 175/2016.

Questa la ratio: la partecipazione pubblica diffusa, frammentata e maggioritaria non costituisce in sé prova o presunzione legale (ma mero indice presuntivo) dell’esistenza di un coordinamento tra i soci pubblici, e quindi di un controllo pubblico, che deve essere invece accertato in concreto sulla base di elementi formali.

Dunque la partecipazione maggioritaria di più Pa non può di per sé giustificare l’affermazione di un coordinamento di fatto né può tradursi automaticamente in «controllo».

Ciò anzitutto perché non c’è l’obbligo per gli enti proprietari di provvedere alla gestione in modo associato e congiunto: non ci sono norme che dettino quest’obbligo espressamente (come invece sarebbe necessario per configurare una sorta di consorzio forzoso tra enti equiordinati); e l’interesse pubblico che le Pa devono perseguire non può certo dirsi compromesso dall’adozione di differenti scelte gestionali o strategiche, che possono far capo, infatti, a ciascun socio pubblico in relazione agli interessi locali (da valutarsi in relazione alle finalità in concreto realizzate dalla società quale soggetto unitario).

Il coordinamento tra le amministrazioni socie – tale da comportare una reductio ad unum della volontà assembleare e dunque configurarsi come «controllo pubblico» - deve risultare da norme di legge o statutarie o da patti parasociali che, richiedendo il consenso unanime o maggioritario, determinino la capacità delle Pa di incidere sulle decisioni finanziarie e strategiche della società.

Le ricedute della sentenza delle sezioni Unite sono importanti. Anzitutto, nel confermarsi il contrasto interno alla magistratura contabile (in senso contrario sezioni Riunite in sede di controllo, delibera 11/2019), viene disatteso l’atto di orientamento del 15 gennaio 2018 della Struttura di monitoraggio del Mef, che affermava all’opposto il principio secondo cui la maggioranza pubblica del capitale basterebbe di per sé a qualificare una società come «in controllo pubblico».

Inoltre – ed è ciò che più rileva – il concetto di controllo pubblico ha connotazione dinamica e quindi implica un concreto dominio della parte pubblica sull’attività gestionale, distinto dalla mera partecipazione al capitale, che dunque deve essere pesata alla luce dell’effettivo assetto societario.

Pertanto, in caso di maggioranza pubblica in assemblea o in cda, anche se in capo a un’unica Pa, l’affermazione di un controllo pubblico sarà preclusa in presenza di clausole statutarie o di patti parasociali che stabiliscano maggioranze qualificate la cui formazione postuli l’apporto del socio privato. Se poi la maggioranza pubblica fa capo a più amministrazioni cumulativamente considerate, il controllo richiederà anche l’elemento positivo del coordinamento formalizzato (sulla base di legge, statuto o patti parasociali), idoneo a determinare l’orientamento delle scelte strategiche della società.

Infine, a contrario, anche una partecipazione pubblica minoritaria non esclude di per sé il controllo pubblico, che può essere affermato se la componente pubblica (di minoranza) vanta un potere di voto/veto concretamente in grado di condizionare la formazione della volontà della società.

La sentenza delle Sezioni riunite della Corte dei conti n. 25/2019

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