Appalti

Partecipate, a Busto Arsizio l’inceneritore brucia 50 milioni

Quella del termovalorizzatore di Busto Arsizio (Varese), in mano alla partecipata pubblica Accam, è una storia di debolezza politica e di gestione inefficace da parte degli amministratori. Un mix fatale, che ha impedito di migliorare l’impianto utile al territorio dell’alto milanese e della zona Sud della provincia di Varese, bloccando dal 2013 ad oggi 50 milioni di investimenti.

Nato negli anni Settanta, il termovalorizzatore di Accam è partecipato da 27 comuni del territorio, tra cui spiccano per dimensioni Busto Arsizio, Gallarate e Legnano, fino al 2016 governate dal centrosinistra e poi, da tre anni, dal centrodestra. Brucia ogni anno 110 mila tonnellate di rifiuti, servendo 400mila cittadini. Si tratta ormai di un impianto medio-piccolo, che attende di essere rinnovato e ampliato da almeno 6 anni.

Nel 2013 c’era un piano da 40 milioni per “revampare” l’immpianto, parola tecnica che sta a indicare un restyling profondo, con nuove caldaie, nuove strutture di riscaldamento per le città, maggiore efficienza. Eppure il progetto non è mai stato aggiudicato. Gli amministratori dell’epoca preferiscono studiare alternative alla termovalorizzazione, con l’affidamento di studi di fattibilità (costati circa 200mila euro) sul recupero dei rifiuti e sui cicli integrati. Ma i business plan sono sempre stati negativi.

Nel 2014 compare la prospettiva di una newco, che avrebbe migliorato la produttività della zona per 30 anni. Ma a Busto Arsizio comincia in questa fase a nascere l’opposizione per l’allocazione del termovalorizzatore: la cittadinanza non lo vuole più sul proprio territorio, figuriamoci in versione “rafforzata”, e l’amministrazione preferisce non imporsi rispetto alle proteste. Eppure un progetto del genere avrebbe permesso di utilizzare il termovalorizzatore anche per l’area Ovest di Milano. Ma neppure questa idea va in porto.

Si arriva così al 2016. Le giunte cambiano colore politico (tranne che a Busto, da 24 anni in mano centrodestra) e si inseriscono i nuovi amministratori vicini a Lega e Forza Italia anche in Accam. I nuovi vertici pensano che qualcosa debba essere fatto e ipotizzano almeno un investimento minore per rifare le caldaie e mettere in sicurezza la produzione di energia. Ma nel 2017 vengono solo ridotte le “linee dei fumi”, per 4 milioni di investimenti, non sufficienti ad assicurare che l’impianto non si blocchi. E infatti si blocca: ci sono vari stop, e ad ogni fermata vengono persi 25mila euro al giorno, per un totale di 1,5 milioni di euro in 2 anni.

In questo stesso periodo viene immaginato anche un nuovo impianto per la digestione dell’umido, che il Comune di Legnano avrebbe potuto realizzare nel Parco Ato-milanese, e che poteva “affiancare” l’attività del termovalorizzatore di Busto. Il progetto però viene bloccato da un ricorso, pur avendo avuto l’autorizzazione Aia.

Gli amministratori di Accam redigono infine un piano di investimenti da 10 milioni dal 2019 al 2027 per altri tipi di interventi tecnici, per garantire il funzionamento dell’impianto. E al momento sono state aperte solo le prime gare, anche perché recentemente la società è stata oggetto di un terremoto giudiziario.

Il nome della Accam è infatti comparso recentemente all’interno dell’indagine “Mensa dei poveri”, condotta dalla procura di Milano, che ha portato alla decapitazione dei vertici della società, dalla dg Paola Rossi alla presidente Laura Bordonaro, entrambe finite in custodia cautelare e accusate, a vario titolo, di abuso d’ufficio e corruzione. In particolare la direttrice, secondo le ricostruzioni, sarebbe stata «eterodiretta» dal segretario di Forza Italia di Gallarate, Alberto Bilardo, anch’esso indagato.

Le assunzioni ritenute illegittime dagli inquirenti sono state l’inizio di una serie di indagini che hanno messo in luce un presunto occulto obiettivo dei dirigenti arrestati: imporre la gestione in house, ovvero l’affidamento diretto da parte dei comuni per lo smaltimento dei rifiuti, senza passare dalle gare, creando intanto una piccola galassia di sotto-partecipate da sfruttare per far girare i soldi attraverso fittizie consulenze. Questa almeno la ricostruzione degli inquirenti.

Nel 2018, infatti, l’assemblea dei soci fece una forzatura giuridica, dichiarando che la società poteva mantenere il regime in-house. In realtà i comuni non avevano le quote necessarie per far valere l’affidamento diretto, e peraltro le tariffe non erano neppure concorrenziali al punto da giustificare l’assenza di gare pubbliche (come previsto dalla normativa europea). Anzi, si è arrivati persino alla contraddizione che alcuni comuni, pur mantenendo la partecipazione societaria in Accam, hanno cominciato a bandire gare per dirottare altrove la gestione dei rifiuti.

Nel 2019 è intervenuta anche la Corte dei conti per dire che non è possibile applicare il regime in house, mentre un mese fa la Presidenza del consiglio dei ministri ha ribadito il concetto dando parere contrario ad una deroga alla legge Madia.

Ma questa storia recente, relativa alle ultime decisioni dell’assemblea e collegata all’inchiesta che ha visto in Lombardia decine diindagati - tutti collegati alla figura centrale di Nino Caianiello, politico di Forza Italia della provincia di Varese e fondatore dell’associazione Agorà - per Accam non è che la punta di un iceberg.

I problemi sono nati ancora prima: dallo stop, 6 anni fa, al piano industriale alla mancanza di volontà di intervenire nel rafforzamento della struttura.

Secondo gli esperti del settore questa vicenda non può che andare a beneficio dei colossi del territorio, ben più organizzati. Basti pensare che A2a si sta rafforzando sul territorio e sta acquisendo termovalorizzatori. Quello di Busto Arsizio è uno dei 13 presenti sul territorio lombardo. E l’assenza di investimenti lo sta rendendo sempre meno competitivo. La palla è passata ora a Angelo Bellora, nuovo presidente del termovalorizzatore.

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