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Ora la sfida è creare sinergie tra regioni ricche e povere

Destrutturarli? No. Riformarli? Sì, ma come? Scalda i muscoli la partita sul destino dei fondi strutturali Ue per il dopo 2020. Sembra lontana la data, considerato che ancora il sistema Italia e le sue regioni faticano – a un primo tagliando 2017 – a progettare e spendere la “dote” del pacchetto in corsa 2014-2020.

I fondi Esif
Invece, le regole per l’assegnazione della prossima tornata di Fondi strutturali di investimento europei (Esif) si mettono nero su bianco ora e, più che in passato, dovranno tenere conto di fattori imprevedibili sino a un anno fa e destinati ad “accorciare” la coperta: la Brexit e il rifinanziamento del Piano Juncker.

Se ne è parlato qualche giorno fa a Helsinki, alla II Smart Regions Conference, sull’utilizzo dei fondi regionali, con i commissari Ue alla Crescita, Jirky Katainen, e alle Politiche regionali, Corina Cretu.

I fondi Esif sono in tutto cinque (Fondo sociale europeo, Fondo di coesione, Fondo di sviluppo regionale, Fondo europeo agricolo per lo sviluppo rurale e Fondo europeo per gli affari marittimi e la pesca) ed erogano più della metà degli stanziamenti dell’Unione (circa 450 miliardi) gestiti dagli Stati membri sulla base di programmi operativi concordati con la Commissione europea e cofinanziati con risorse nazionali e regionali.

Il cosiddetto Piano Juncker, invece, è il Fondo Ue per gli investimenti strategici (Efs, ovvero 315 miliardi mobilitati a fronte di 22 miliardi di garanzie e fondi europei), che consente alla Bei (Banca europea degli investimenti) di assumere maggiori rischi e di mobilitare capitali privati per fornire finanziamenti supplementari agli investimenti strategici e alle Pmi.

A questo punto, scatta il nodo di come ripartire i fondi sui due piatti della bilancia. Perché, innanzitutto, ci sarà la Brexit. La Gran Bretagna è un contribuente “pesante” e la sua uscita ha solo due prevedibili effetti: ripartire il carico sui portafogli degli altri Paesi o (più probabile) prendere atto che la “torta” da suddividere sarà minore.

Il rifinanziamento del Piano Juncker
Non solo. Tutti (soprattutto i Paesi più ricchi), così come la Commisione Ue, sono d’accordo nel voler incrementare il rifinanziamento del Piano Juncker, per esempio «legando e rendendo complementari – ha sottolineato il commissario Ue alla Crescita, Jirky Katainen – fondi strategici e fondi strutturali. Bisogna fare in modo che anche progetti molto piccoli possano beneficiare dei fondi strategici. Così da avere un effetto moltiplicatore su crescita e occupazione». Peccato che, qualche mese fa, un rapporto della Bei, citato in anteprima da Reuters, abbia sottolineato che il Fondo investimenti strategici da 315 miliardi sia andato per lo più a beneficio (per il 92%) dei 15 paesi membri più ricchi dell’Unione europea, trascurando i 13 Paesi più poveri. Con Italia e Spagna che hanno beneficiato maggiormente dei finanziamenti, soprattutto per infrastrutture e innovazione.

«I due pilastri di fondi Ue nascono con obiettivi diversi ed è pericoloso legarli – spiega Patrizio Bianchi, economista e assessore regionale al Lavoro in Emilia Romagna –. Il Piano Juncker è uno strumento per sostenere il finanziamento di progetti “bancabili”, comunque attrattivi e sostenibili. I fondi di coesione intervengono proprio dove questa “attrattività” non c’è. Sovrapporre i due strumenti rischia di sottrarre risorse alle aree europee più povere». Meglio sarebbe, ha concluso Bianchi, «scommettere e incentivare i progetti interregionali. Anzi, si potrebbero sostenere ad hoc quei progetti interregionali che vedono le regioni “ricche” aggregarsi o fare da capofila a progetti con le più “povere”. Baviera, Lombardia e Rhones-Alpes sono già integrate tra loro. La sfida è smettere di ragionare per singoli Paesi e creare sinergie tra le locomotive e i vagoni di coda dell’Unione».

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