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Attività non commerciali con criteri validi per tutti

La riforma del Terzo settore introduce un quadro legislativo omogeneo, con regole uniformi inserite all’interno di un Codice unico, applicabile a tutti gli enti del terzo settore (Ets), che vanno a sostituire le molteplici disposizioni di dettaglio e il regime delle Onlus, in gran parte assorbito nel nuovo Codice. In funzione della forma giuridica e del tipo di attività svolta, gli enti potranno scegliere in quale categoria del Registro unico nazionale iscriversi, accedendo alle nuove misure introdotte dalla riforma.

Profit e non profit
Un aspetto importante sarà la distinzione tra il mondo profit e quello non profit, tenendo conto del carattere prevalente o meno delle attività di natura non commerciale. Rientrano in quest’ultima categoria i fondi arrivati in seguito a raccolte occasionali, anche attraverso la vendita di beni o campagne di sensibilizzazione, i contributi erogati da amministrazioni pubbliche e, per gli enti associativi, le attività prestate agli associati dietro corrispettivi specifici e le quote associative. Per le organizzazioni di volontariato, restano non commerciali la vendita senza intermediari di beni acquisiti da terzi a titolo gratuito o prodotti dagli assistiti, e la somministrazione di alimenti o bevande in occasioni specifiche. La somministrazione resta fuori dall’ambito della commercialità anche per le associazioni di promozione sociale (Aps) se effettuata presso le sedi istituzionali, in modo complementare rispetto all’attività principale e svolta senza pubblicità.

Le attività
L’articolo 79 del nuovo Codice introduce un principio generale che stabilisce per tutti gli Ets la non commercialità delle attività principali quando i corrispettivi non superano i costi effettivi (quelli diretti e le spese generali), tenendo conto anche degli apporti economici delle pubbliche amministrazioni, in caso di attività convenzionata con queste ultime (si pensi all’assistenza socio sanitaria o alla formazione). Non sono considerati invece gli eventuali ticket sanitari versati dagli utenti.
Nel limite del 49% delle entrate, gli enti non profit potranno svolgere attività commerciale, sia principale, sia secondaria e strumentale rispetto alle finalità istituzionali, senza per questo essere attratti nella categoria profit; circostanza che potrà verificarsi solo qualora le entrate derivanti da attività commerciale superino, nel periodo d’imposta, quelle non commerciali. Rientrano in quest’ultima categoria i contributi, sia pubblici che privati, le liberalità, le quote associative e il valore normale delle cessioni o prestazioni svolte con modalità non commerciali. Gli enti non profit potranno optare, inoltre, per regimi forfettari agevolativi basati su coefficienti di redditività applicabili a scaglioni.
Per le associazioni di promozione sociale e le organizzazioni di volontariato con ricavi inferiori a 130mila euro, viene introdotto un regime opzionale basato su coefficienti di redditività ridotti (1% o e 3%), con estensione del trattamento Iva previsto per i consumatori finali (senza detrazione dell’Iva sugli acquisti, che diventa costo deducibile, e senza obbligo di emettere fattura).
Gli Ets che svolgono attività commerciale in misura prevalente avranno la possibilità, con la riforma, di accedere al regime fiscale di favore dell’impresa sociale. In cambio di maggiore trasparenza (si pensi al bilancio) gli utili, se reinvestiti entro due anni nell’attività statutaria o destinati a incremento del patrimonio, non saranno tassati.

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